Il prossimo Giugno saranno passati esattamente 15 anni dall’ultimo titolo dei fantastici Chicago Bulls di Michael Jordan, “the shot”, per l’esattezza, è  datato 14 giugno 1998, quel giorno MJ, 35enne, firmò in modo magico ed indimenticabile il suo secondo 3-peat e consegnò al mondo una delle più belle ed emozionanti storie di sport di tutti i tempi, con un finale che neanche uno scrittore avrebbe potuto immaginare di meglio!

In questi anni ne abbiamo sentite e viste di tutti i colori, gli eredi di MJ si sono moltiplicati e, uno dopo l’altro, si sono dissolti nel nulla, chi sotto il peso di un etichetta troppo grande da portare addosso, chi perchè in realtà privo di vero talento.

Il primo erede, datato inizio anni 90, era il celebre Harold Miner, venuto fuori come giovane schiacciatore da All Star Game, senza neanche un grande talento nè tantomeno risultati personali rilevanti nella Lega, comunque capace di ricevere la nomina in un periodo

nel quale il grande Mike era ancora sui parquet, tralaltro anche in giovane età.

Miner era un grandissimo saltatore e schiacciatore, lo confermano le vittorie nello Slam Dunk Contest nel 1993 e 1995, ma in campionato non andò mai oltre annate da una decina di punti di media, ai quali aggiungeva un paio di assist e rimbalzi.

La sua carriera Nba, infatti, durò soltanto quattro anni, i primi tre vissuti nei Miami Heat, poi una stagione anonima ai Cleveland Cavaliers, infine il ritiro, ufficialmente per problemi alle ginocchia.

Da lì in poi, per un paio di anni, la questione dell’eredità di “His Airness” divenne una questionemolto importante, i nomi si sprecavano, l’era post-Jordan era una fase molto difficile per la Nba, i campioni latitavano, tra i pochi nomi nella posizione di guardia spuntava Grant Hill ad esempio, più un nuovo Pippen che un nuovo MJ comunque, proprio in quegli anni però falcidiato dagli infortuni alle caviglie.

La Nba era passata in un attimo dall’ era di Magic e Bird a quella di MJ, quasi senza rendersene conto, con un breve intermezzo targato Detroit Pistons, le stelle erano tante, negli anni 90 tutte allineate dietro alla luce che emanava il numero 23 della Windy City.

Al suo addio, 14 giugno 1998, il suo erede ancora non esisteva, e il problema veniva alimentato dal fatto che non si fosse ancora verificato alcun ricambio generazionale. Quelli della generazione di MJ, se in attività, erano tutti a fine carriera, l’unica vera stella dominante che stava venendo fuori era Shaquille O’Neal, poi Mvp nel 2000 e dominante ad inizio nuovo millennio, Garnett e Duncano stavano nascendo, tutti comunque fenomeni sotto i tabelloni, nel settore guardie c’era il buio, detto di Hill, Iverson era in rampa di lancio ma era giocatore ben diverso, i nomi erano due e soltanto due, in quegli anni.

Trovare un erede per MJ non era per niente facile, troppo talento e troppo strapotere fisico, spuntavano fuori tanti nomi simili per atletismo ed elevazione magari, pochi di questi avevano talento e “skills” tecniche e tattiche, e chi le aveva di sicuro non aveva la forza mentale di Michael Jordan.

Ad ogni modo, il primo nome venne veramente fuori all’All Star Game 1998, mvp proprio Jordan in quell’occasione, ma di lui parleremo dopo. Veniamo al secondo della lista, Vince Carter, Air Canada a quei tempi, sbocciato nel 1999 nei Toronto Raptors, università di North Carolina, atleticamente un fenomeno davvero come pochi, capace di saltare sopra un uomo di 2.10 per schiacciargli in testa, non in esibizione, in finale olimpica, a Sidney, nel 2000. Soprattutto, un giocatore vero, non un semplice saltatore.

Tante stagioni da 25 o più punti, cui aggiungeva rimbalzi e assist, uomo franchigia, capace di portare i Raptors ad un tiro dalle finali di Conference ad Est, atleta, realizzatore, anche difensore all’occorrenza, mostrò i primi segni di debolezza mentale nel modo in cui decise di farsi scambiare dai Raptors, ovvero smettendo di giocare a pallacanestro, comportandosi in modo indisponente sul parquet, a soli 15 di media, lui che era da qualche anno uno dei maggiori scorer della Nba.

Da lì in poi Nets, Magic e Mavs, con la considerazione di essere un ottimo giocatore, di sicuro non più l’erede di MJ, come in tanti avevano pensato potesse essere tra il 1999 e il 2002.

E adesso torniamo al numero uno della lista, che trattiamo ovviamente per secondo, partendo proprio da quell’All Star Game del 1998, l’ultimo di Michael Jordan, o meglio, l’ultimo del vero MJ, quello che giocava per vincere i titoli e non soltanto “for the love of the game”, anche se comunque in grado di scrivere quarantelli a quarant’anni!!

1998, dunque, MJ mvp, alla ribalta una giovanissima guardia dei Lakers, 19 anni, in squadra sesto uomo, cambio di Eddie Jones, parliamo chiaramente di Kobe Bryant, che in quella partita deliziò in tanti con numeri da fenomeno, compresa una schiacciata pazzesca autopassandosi la palla dietro schiena.

Da allora sono passati 15 anni, inutile riassumervi la carriera di Kobe, per lui, oltre ai trionfi con Team USA, si possono ricordare i 5 titoli Nba, due da Mvp, il titolo di Mvp della Lega nel 2008, e vari trofei di miglior marcatore della Nba, con la chicca della partita da 81 punti.

Ad oggi, essendo ormai Wade rassegnato ad un ruolo da seconda stella della propria franchigia, l’eredità di Jordan è una contesa tra Kobe e LeBron James. Michael Jordan, in merito, si è già espresso, sostenendo che il suo vero erede ormai non possa che essere considerato il numero 24 dei Lakers, per i trofei, per la analogia di ruoli e fisici, per la leadership e per la forza mentale, oltre che per la capacità di scendere in campo e dare tutto anche in condizioni fisiche disagiate.

King James, oltretutto, è giocatore bene diverso, un ala piccola forte come un toro, capace di gicoare cinque ruoli e fare tutto ciò che può chiedersi ad un giocatore su un campo di basket, più un Magic, per esser chiari, con più punti nelle mani e più atletismo e potenza magari, con meno visione di gioco e passaggio, ovviamente.

Bryant, oltretutto, è speculare a MJ, non è forte come lui nè lo è mai stato, ma è quello che più gli si è avvicinato per talento, atletismo, ruolo, fisico, stile di gioco, forza mentale e caratteriale.

Ciò detto, chiarita la questione dell’eredità, resta una sola domanda da bar. Appurato che James non può essere considerato l’erede naturale di Michael Jordan, viene da chiedersi se sia al suo livello, o lo abbia superato. Domanda da bar, di risposta difficilissima. Per amore e passione, la risposta è una soltanto. Michael Jordan è il numero 1. Non si discute. Neanche se ne può parlare. Vicino a lui Magic e Bird, dietro tutti gli altri. D’istinto la risposta è soltanto questo.

Ma analizziamoli sotto tutti i punti di vista, per fisico vince James, gambe da guardia in un corpo da ala forte, per atletismo vince MJ, anche se di poco ovviamente, su assist e rimbalzi King James è davanti, anche se negli assist MJ è molto vicino, per capacità di realizzare c’è un abisso tra i due, ovviamente a favore del 23, in difesa MJ era il numero 1, James è forte ma non così forte, visti cosi sono giocatori diversissimi ma pià o meno alla pari, con caratteristiche opposte magari.

La differenza è una sola, MJ non è andato da nessuna parte a vincere, MJ le ha prese da squadre più forti e si è rialzato, pensando solo ad allenarsi ogni giorno di più, a capire dove aveva sbagliato per vincere, imparando a coinvolgere gli altri, a difendere, MJ ha messo tutti i tiri decisivi della sua carriera, rendendola quasi una favola, Michael Jordan aveva una forza mentale, una leadership, un carattere senza eguali. Lebron è un fenomeno senza eguali, ma MJ è il numero 1. Punto e basta!