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Estate 1992.

Per quelli della mia età è probabilmente il momento in cui abbiamo fatto conoscenza con Drazen Petrovic.

Io, in particolare, sono uno che ha praticamente imparato a leggere sulle colonne di Superbasket e, mentre mi appassionavo al talento di Toni Kukoc, appena arrivato alla Benetton, ancora ignaro di cosa l’airone di Spalato avesse già realizzato in maglia Jugoplastika e con la propria nazionale, nell’estate del 1992, alle Olimpiadi di Barcelona, ecco la scoperta di Drazen Petrovic.

Quando Drazen si presentò al mondo, io non ero ancora nato, quando dominava in Europa, io cominciavo a camminare, quando andò in Nba, nel 1989, ero ancora troppo piccolo.

Ma nel 1992, io che, come tutti i bambini, pensavo che l’Nba fosse il paese delle meraviglie e, più che altro, che Michael Jordan fosse una divinità scesa in terra per deliziarci con il suo basket, mi resi conto che esisteva un ragazzo, bianco, europeo, forte in modo inimmaginabile, atletico sì ma neppure la metà dei neri d’oltreoceano, un ragazzo che, aiutato da qualche compagno che di lì a poco avrebbe fatto il salto nella Nba, teneva botta al Dream Team, lui che in pratica, in quel momento della sua carriera, era la seconda guardia Nba, dietro MJ, alla pari con Clyde Drexler, cui aveva fatto da sostituto durante la finale Nba del 1991.

Drazen Petrovic, un nome, un mito.

A quei tempi la Nba guardava in Europa, poco, e comunque solo per lunghi dai 2.15 in su, vedi Sabonis o Divac, playmaker di due metri, Marciulionis, o point forward di 2.10come Kukoc, anche se a lui successivo.

Drazen era una guardia di 1.95, capace di portar palla, una meccanica di tiro perfetta, in palleggio, arresto e tiro non sbagliava praticamente mai, penetrazione, tiro da tre punti e, quando contava, anche difesa. Un attaccante strepitoso, realizzatore come pochi ne nasceranno in futuro.

Per farvi capire, ai tempi era come se un neozelandese venisse in Italia a spiegare calcio.

Drazen, come parecchi degli altri Europei che abbatterono il muro Nba, aveva un talento cristallino, qualcosa che ai pur scettici addetti ai lavori americani non poteva passare inosservato. Fenomeno.

In Europa, ad appena 25 anni, aveva già vinto tutto. Era il numero 1.

Cominciò col Sibenik, squadra che, giovanissimo, trascinò alla finale di Korac persa col Limoges.

A 20 anni si trasferì al Cibona Zagabria in cui giocava il fratello di Dražen, Aza.

L’impatto di Dražen fu impressionante, infatti trascinò la squadra alla conquista di 2 Coppe Campioni, 1 European Cup, 4 scudetti jugoslavi, più varie coppe nazionali e riconoscimenti personali.

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Si trasferì al Real Madrid nel 1988, con un contratto di 4 milioni di dollari l’anno, una cifra per l’epoca assolutamente spropositata.

Durante la stagione trascorsa al Real, gioca una serie di 5 partite consecutive (con cinque vittorie di squadra) in cui totalizza 207 punti (41,4 in media a partita) e scrive nuovi record (ancora oggi imbattuti) come i 42 punti di gara-4 della finale scudetto e gli 8 assist di gara-2.

Nel 1989 il Real Madrid incontra nella finale di Coppa delle Coppe la Snaidero Caserta di Gentile, Esposito e Oscar Schmidt. I Madrileni vincono per 117-113 e Petrović mette a referto ben 62 punti.

[data from wikipedia.it]

A quel punto il passo era inevitabile: la Nba.

Stiamo parlando di un periodo nel quale, negli States, ci guardavano dall’alto verso il basso, riferendosi a gente che, al giorno d’oggi, implorerebbero a suon di milioni.

Due stagioni ai Trail Blazers, con una finale Nba, non da protagonista, chiuso da Clyde Drexler.

Tutto potrebbe far pensare alla decisione più facile, ritorno in Europa e vita da mvp.

Ma questo non era Drazen, lui si allenò ancora di più, ricostruì il proprio fisico europeo per essere alla pari con i super atleti Nba, e si ripresentò nel 1991/92 ai New Jersey Nets, con una carica esplosiva, dimostrando che la sua fama europea non era un’illusione.

Prima stagione da 20,6 punti per gara, tirando col 51% dal campo.

A fine anno, l’argento olimpico a Barcelona 1992, contro il Dream Team, con la nuova Croazia, lui che in maglia Jugoslavia aveva già vinto vari Europei e i mondiali del 1990, con Toni Kukoc, Vlade Divac e Dino Radja. In quella occasione la lite con Vlade Divac, oggetto del documentario “Once brothers”, causata dall’azione di Divac, che, durante i festeggiamenti, strappò una bandiera croata dalle mani di uno dei supporters, gesto poco gradito da parte del buon Drazen, croato e consapevole delle atrocità della guerra di indipendenza contro i serbi. Un’amicizia interrotta e che mai si potè rinsaldare.

In Nba, prima di incontrarlo, Vernon Maxwell, guardia a quei tempi a quei tempi agli Houston Rockets, dichiarò prima della partita che ancora doveva nascere il bianco europeo che gli avrebbe fatto le scarpe…”. Dražen in risposta realizzò 44 punti.

Nel 1992/93 i suoi punti erano 23 a partita. Numero 2 del mondo, nel ruolo di guardia, dietro Michael Jordan, alla pari di Clyde Drexler, cui aveva fatto da “panchinaro” nella finale Nba del 1990, a Portland. A 28 anni lo attendevano i suoi migliori anni Nba.

Morì il 7 giugno 1993, dopo una partita di qualificazione con la sua Croazia, tornando in macchina invece che con il resto della squadra.

Quelli della mia generazione probabilmente non lo hanno mai visto giocare, difficilmente ci sarà qualcuno come lui, forte come lui, con la voglia di allenarsi senza eguali, di non mollare mai, e un talento smisurato.

Ha aperto una strada, quella verso la Nba, che poi in tanti altri hanno poi intrapreso, ma per aprire quel varco erano necessari talenti unici e, soprattutto, grandi uomini.

vedi:

http://www.youtube.com/watch?v=vjHr3emL1Lc