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All’apparenza si potrebbe pensare che, con un signor budget a disposizione, non sia complesso mettere insieme dieci, se non dodici, buoni giocatori di pallacanestro per dare l’impressione di aver creato una grande squadra, di quelle che, per esser chiari, in un ormai lontano superbasket versione estiva, a primo impatto, farebbero sgranare gli occhi ai nostalgici lettori.

Più difficile, invece, è creare un gruppo di giocatori e uomini che vadano a formare una vera squadra, ottenendo quella chimica che, si sa, è fondamentale in ogni sport.

L’esempio più attuale è quello di Milano che, con il budget più elevato della serie A, naviga in acque che, a inizio campionato, non le sarebbero dovute competere.

L’Olimpia ha ragionato apparentemente bene, durante la pausa estiva, a parte una inutile ed eccessiva lunghezza del roster, con un Giachetti, ex playmaker della Nazionale, relegato a marcire in panchina, e un Chiotti destinato a vedere sempre più ridotto il proprio minutaggio.

In estate era arrivato il pivot più fisico ed atletico, Hendrix, in luogo di quello più tecnico e longilineo, Radosevic, per dare il cambio a Bourousis, e una coppia di guardie da far impallidire gli avversari, il super talento offensivo Keith Langford e il vecchio campione per dargli respiro, Gianluca Basile.

Eppure niente è andato come  doveva andare e a Milano hanno già fatto ritorno sia il detto Radosevic, proprio per Hendrix, che J.R. Bremer, attualmente inesistente, al posto di Omar Cook, che a inizio anno era individuato come leader e capitano, il tutto con l’aggiunta del piccolo Marques Green, nella speranza che quest’ultimo, con le sue giocate e la sua leadership, possa accendere la luce in casa Armani.

La chimica non si compra.

La chimica però si può studiare, si può prevedere. Guardare Sassari e Varese per credere.

Anche la Montepaschi Siena, negli anni del suo dominio indiscusso, ha cambiato ossatura e budget a disposizione, passando da Mc Intyre, Thornton e Stonerook, a Mc Calebb, Kaukenas e Lavrinovic, infine a Brown, Hackett e Ress, e nonostante ciò, è sempre in prima linea, in Italia e in Eurolega.

La Virtus Roma ne è, però, l’esempio più lampante.

Per un paio di anni, sono state spese fatica e risorse economiche per mettere insieme gruppi di giocatori, alcuni, e uomini, pochi, che avrebbero dovuto ben figurare sia in Italia che in Eurolega, squadre che però non sembravano ben assortite né in concreto né sulla carta, e soprattutto squadre troppo lunghe, senza certezze, senza leader, senza anima.

Quest’anno, con il presidente Toti che avrebbe voluto chiudere battenti e ha fatto la squadra soltanto per mancanza di alternative, il basket a Roma è rinato, nonostante le premesse.

La squadra ha un senso, i giocatori mettono l’anima in campo, sono un gruppo unito di uomini prima, e di giocatori dopo, non manca la chimica di cui sopra.

Un play americano, anche se giovane, Jordan Taylor, e un pivot esplosivo come Gani Lawal con il leader designato Gigi Datome, alla propria miglior stagione in carriera, formano l’ossatura della squadra capitolina, allenata, in modo eccelso, da coach Marco Calvani.

A questi è bastato aggiungere un sesto uomo che spacca le partite, Phil Goss, e un play-guardia italiano specialista del tiro da tre punti, Lorenzo D’Ercole, più Lorant e il vulcanico Czyz, tralaltro ancora tutto da scoprire.

Una squadra corta, alla quale lo staff tecnico ha dato un’anima e una voglia di combattere senza eguali, capace di vincere tantissime partite negli ultimi minuti, senza mollare mai, lottando con squadre spesso più fisiche e lunghe, tanto da far tornare l’entusiasmo al presidente Toti. Complimenti!

Il basket è bello anche per questo, la chimica spesso aiuta gli audaci.

Chi non ricorda la Juve Caserta campione d’Italia nel 1991? Gentile, Esposito, Dell’Agnello, Frank e Shackleford, in panchina Donadoni, Tufano e un paio di giovani.

Certo, Esposito e Gentile non si fanno in casa tutti gli anni, però quella Caserta era l’emblema di come il trovare o meno la chimica giusta sia una questione sì imprevedibile ma, allo stesso tempo, qualcosa cui si può tendere maggiormente con scelte oculate e logiche.

A Caserta Oscar fu ceduto per dare più spazio a Esposito. Il risultato ben si conosce.

Vero è che a quei tempi le squadre erano necessariamente più corte di quelle attuali, con meno stranieri, più campioni veri, e una notevole sproporzione di valore tra quintetto e panchina.

E in questo modo erano costruite anche le squadre che competevano nelle coppe europee.

Adesso i settori giovanili latitano, gli stranieri si sono moltiplicati, ne arrivano tanti e spesso meno forti, i campioni veri vanno in Nba, sia gli europei che gli italiani, sono pochi gli americani veramente forti che vengono in Italia, e le dinamiche quindi sono totalmente variate.

Ma la pallacanestro è sempre la stessa, in campo abbiamo sei secondi in meno, ma lo scopo è sempre quello di far canestro da una parte e di non farlo fare dall’altra.

Per far bene si devono scegliere i giocatori giusti, metterli nelle possibilità di far bene, creare le dinamiche adatte per far esprimere tutti al meglio. Chimica.

Non può mancare il leader, l’uomo che ha l’ultima parola in spogliatoio e tiene in riga i compagni, e non per forza deve coincidere con il leader in campo, che può anche essere un altro giocatore.

A questo si deve aggiungere l’uomo che accende la luce sul parquet, il playmaker, sulle cui caratteristiche andranno scelti i compagni, in conformità con lo stile di gioco su cui plasmare la squadra, e quindi il roster sarà completato con un realizzatore, uno specialista difensivo sugli esterni, un animale da rimbalzo, un lungo da pick and roll ed uno che sappia tirare da tre, immancabile nel basket moderno.

Ruoli chiari, definiti, ognuno con la sua identità, squadra unita. Vedere le suddette Varese, Sassari e Roma per credere.

Il tutto sempre attenzionando le scelte iniziali effettuate dallo staff tecnico, il sistema adottato e la compatibilità, tecnica tra i giocatori e caratteriale tra gli uomini.

Il basket è meraviglioso per questo, col budget si vince, ma non è solo una questione di soldi.

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