Karl Malone emozionato all’All Star Game del 1997 a Cleveland, si avvicina a Wilt Chamberlain e gli dice:”Buonasera Signor Chamberlain sono Karl Malone, mi farebbe un autografo? ” e Wilt talmente superiore gli disse: “Si volentieri. Come ha detto che si chiama?” Karl Malone secondo miglior scorer di tutti i tempi!

Nato in una numerosa famiglia afro-americana di Philadelphia alla fine degli anni 30, la mamma non sapeva come chiamarlo e vedendo la strada Willton Street decise di chiamarlo Wilt.

 

Wilton Norman Chamberlain era 2 metri e 17 centimetri e aveva il 5% di grasso corporeo. Con quel fisico poteva fare di tutto dominando. Grazie alle sue straordinarie doti fisiche riusciva ad ottenere risultati incredibili in discipline atletiche quali salto in alto, lancio del peso e 400 metri piani, ma scelse di farlo con la pallacanestro. Wilt-Chamberlain- 2,17Il suo nome ricorre spesso nelle statistiche riservate ai migliori e molti dei suoi record sono ancora lì e resistono agli attacchi di piccole e grandi star.

Wilt Chamberlain detto The Stilt (il trampoliere), era  uno di quelli che su un campo entrano da giocatori ed escono da  miti.

Da ragazzo ha frequentato per tre anni la Kansas University, non disputando però il campionato nazionale al primo anno perché, all’epoca, i freshmen ne erano esclusi. Ha concluso il successivo biennio con medie pazzesche, 29.9 punti e 18.3 rimbalzi a partita, perdendo nel 1957 la finale NCAA contro North Carolina dopo tre tempi supplementari. Si allenava poco perchè aveva poca voglia, ma era un manuale di post basso. Tra schiacciate di potenza e comodi appoggi nella sua carriera ha sfidato i più grandi di quel periodo, uno su tutti la sua bestia nera Bill Russell. Aveva, però, una grossa pecca: non sapeva tirare i liberi.

Iniziò con gli Harlem Globetrotter giocando praticamente a casa, dato che andò a vivere a New York dove aprì un locale chiamato “Big Wilt small’s paradise” frequentato dai futuri pezzi grossi della cultura americana come Malcom X e Ray Charles. Era un periodo particolare, l’America stava per cambiare e gli afro-americani stavano prendendo la rivincità dopo anni di schiavismo ed esempi come Mohammed Ali e appunto Wilt Chamberlain erano li a dimostrarlo.

200px-Wilt_Chamberlain globetrotterQuesto suo essere unico faceva paura. Edgar Hoover capo dell’FBI, lo controllava perchè il suo modo di viver poteva cambiare l’opinione pubblica della gente afro-americana.

Wilt successivamente passó ai Philadelphia Warriors in NBA. Era una NBA diversa come regole e come seguito di pubblico, ma Wilt dal suo arrivo la cambierà radicalmente.

Quando fu arruolato nella  lega professionistica americana, fu necessario varare contro di  lui, una nuova regola su misura. Poichè non c’ era palla  alta che Wilt non domasse in area e buttasse  dentro la cesta, nacque la regola dei ‘ tre secondi’ : nessuno da  allora può stare tanto dentro il pitturato.

Una volta, dopo una vittoria contro i Chicago Packers, realizzando 61 punti, ma sbagliando l’impossibile dalla lunetta, Wilt festeggió a New York in un locale jamaicano chiamato Dorothy ubriacandosi fino alla chiusura e portandosi 4 donzelle a casa verso le prime ore della mattina.

A casa sua oltre ad un materasso ad acqua 4 metri per 4, aveva un vero semaforo che stabiliva se aveva voglia di fare qualcosa con la ragazza di turno a seconda del colore, e il faro a detta sua era sempre verde!

Tra le tante cose si narra che nella sua vita abbia “castigato” come diceva lui, quasi 20 mila donne, e che girasse ogni estate da costa a costa con la sua Corvette oltre i 300 km/h quando il limite era di 120.

Il giorno dopo la gara contro i Packers, peró c’era un’ altra partita: i New York. Wilt, dopo poche ore di sonno e dopo la sbronza si presentó al palazzo. Conoscete forse un giocatore capace di segnare 100 punti in una singola partita e per di più in queste condizioni?  “Tutto  quello che Wilt fece o disse non sta dentro una vita”, ha detto  un suo ex compagno, intendendo: una vita normale!

Se era  impossibile fare 100 punti in una partita Nba, l’ unico a  renderlo possibile era lui: successe il 2 marzo 1962 nel palazzetto di HersheyPark Arena, Pennsylvania.Wilt_Chamberlain_targa 100 punti

Una cosa del genere non è successa più, neanche con Magic Johnson,  neanche con Michael Jordan, i grandissimi che sarebbero venuti  dopo.

Inizialmente il palazzetto era semivuoto, non  c’era la stampa e neppure i fotografi, figuriamoci la televisione, “solo” circa 4100 spettatori su 9000 disponibili. Wilt inizia fortissimo, anche dalla lunetta, con un 9 su 9 e 23 punti nel primo tempo.

Le voci sulla sua prestazione, all’esterno, s’intenzificano e così iniziano ad arrivare gente e fotografi e addetti stampa per raccogliere tale impresa. Siamo a  69 punti e manca ancora un intero quarto da giocare.

Da li si smise di assistere ad una partita di basket, per iniziare la caccia al record dei 100 punti.

New York non ci stava, portava tutti contro il 13 dei Warriors, facendo fallo, ma Wilt quella sera era semplicemente immarcabile, e per di più segnava anche i tiri liberi.

Il pubblico e lo speaker Dave Zinkoff erano in attesa e scandivano il countdown ad ogni azione e Chamberlain riuscendo ad esaudire la loro richiesta arrivó a 100 punti.

Il segreto di quella notte memorabile è racchiuso in una sfida al tiro a segno giocata due ore prima. Wilt e i suoi compagni, i Warriors di Philadelphia, erano arrivati con grande anticipo. Così, con mogli e parenti al seguito, per ammazzare il tempo, finirono in una sala giochi vicina al palazzetto. Le cinque del pomeriggio. La partita coi New York Knickerbockers era alle otto.

Wilt cominciò, come al solito, a sfidare tutti: a flipper, a biliardino, al tiro al bersaglio. Lo dovettero fermare per manifesta superiorità e per non fare tardi alla partita. Ma soprattutto perché il titolare del tiro a segno aveva esaurito i pupazzi-premio da regalare. Allora Wilt disse: «I’ m hot». Sono caldo. Poi andò a giocare la sfida che sarebbe entrata nella leggenda. Quella dei cento punti.

Che Wilt Chamberlain potesse riuscire in quella impresa mostruosa non passava per la testa a nessuno. Per uno che segnava 50 punti di media per sera, dire «I’ m hot», era una specie di consuetudine. Però quella volta Wilt era caldo sul serio. Incandescente.     Di tutti i testimoni oculari di quella notte, qualcuno non c’ è più. Chi rimane ha una missione da compiere: difendere quel primato dalle aggressioni degli scettici.

Paul Arizin, giocava ala a fianco di Wilt e di quella sera ha detto: «Non ci siamo resi conto subito di quello che stava accadendo. Eravamo abituati a vedere Wilt segnare: 60, 70 punti. All’ inizio del secondo tempo cominciammo a capire. Wilt era in trance. E New York non regalava nulla. Lo marcavano in due, anche tre per volta. Gli facevano fallo continuamente perché andasse in lunetta, dov’ era considerato modesto. Invece quella sera segnò 28 volte su 32».

Harvey Pollack il più grande statistico di basket vivente, quella sera, lavorava per i Philadelphia Warriors ma anche per il giornale cittadino The Enquirer e per l’ agenzia Associated Press. Era l’ unico giornalista al seguito. Finita la partita prese un foglio e con un pastello ad olio lo passó a Wilt che si fece immortalare in una delle foto più famose sulla pallacanestro.

 100

Pollack di quella sera disse: «Era una partita di fine stagione, i giochi erano fatti, Philly era già ai playoff e New York ormai tagliata fuori; i giornali mica spendevano soldi per trasferte da 90 miglia. All’ inizio non c’ era neppure un fotografo, arrivarono a terzo quarto avviato, quando Wilt ne aveva già segnati 41. A quota cento la gente entrò sul campo».

Tutti i presenti, ad un certo punto, si misero a gridare in coro: «Give it to Wilt». Passatela a Wilt. Finì 169-147 per Philadelphia.

Chamberlain disse molto poco di quella sua impresa: «Ai cento punti non ci pensavo proprio – disse -, ma quando ho segnato nove tiri liberi di fila, ho immaginato che forse il record dalla lunetta potevo farlo».

Quella notte tornò normalmente a New York, dove viveva e dove possedeva un night club. I suoi compagni si imbarcarono sul bus per Philadelphia come se nulla fosse. Pollack, che viaggiava con la squadra, giura che Wilt fosse un fenomeno in tutti i giochi. Con le carte e persino i quiz a domande di cultura generale che lui stesso organizzava per ammazzare il tempo. «Però era una persona molto discreta – aggiunge – un galantuomo sul campo, ma un tipo molto riservato. Difficile da conoscere sul serio».

Si racconta che non fosse un uomo felice. Detestava alcune cose ferocemente: i broccoli e i soprannomi. «Big Dipper» (il grande cucchiaio) e «The Stilt» (il trampoliere) gli davano sui nervi. «Aveva mani splendide – dice Arizin -, e voleva farsi ricordare per il suo talento, non per la sua altezza». Era alto due metri e sedici, forse di più. Provarono a misurarlo diverse volte, ma lui si rifiutò. «I’ m not a giant, I’ m a player», aveva detto. Non sono un gigante, sono un giocatore.     Non schiacciava: si vergognava. Disse una volta che non era un bel gesto. Preferiva depositare la palla nel cesto con stile. Quella notte di marzo lo fece 36 volte, esclusi i tiri dalla lunetta. In fondo aveva avvertito: «I’ m hot».

Negli anni successivi passó ai Los Angeles Lakers dove insieme ad un altra leggenda come Jerry West vincerà l’anello, ma quella prestazione senza tiro da tre punti sarà ricordata come una cosa incredibile, proprio come lui.

Chamberlain  giocò 14 stagioni nella Nba, girando tra Philadelphia,  Golden State e Los Angeles. E, rispetto a quanto fu  individualmente inarrestabile, vinse poco in carriera. Due  titoli: nel 1967 con Philadelphia, nel 1972 con Los Angeles. La  sua disgrazia fu sbattere contro una squadra tra le più  forti d’ ogni epoca, i Boston Celtics che dominarono gli anni ‘  60 e ‘ 70 vincendo 8 titoli di fila e 11 in 13 annate. Avevano un  pivot, Bill Russell, che poteva valere Chamberlain, e per  qualcuno lo superò: spesso l’ ingrata etichetta di “perdente”  si affibia erroneamente a chi magari ha soltanto la sfortuna di avere compagni meno bravi. I due  omoni furono il Bartali e il Coppi del basket americano.bill_russell-and-wilt_chamberlain

La vita di Wilt, rimessa insieme ora che non c’è più, s’ intreccia con la statistica dei suoi  record, al modo ossessivo in cui gli americani amano raccontare,  cioè distillare in numeri le imprese dei loro assi.

E  allora dicono dei 31.419 punti segnati che lo collocavano al primo posto della classifica dei giocatori con il maggior numero di punti in carriera quando si è ritirato nel 1974 (quindici anni più tardi è stato superato da Kareem Abdul-Jabbar, mentre oggi è il quarto di sempre in classifica), dicono delle 1205 partite  giocate nella lega, delle 7 classifiche dei marcatori vinte di  fila, dal ‘ 60 al ‘ 66, delle 11 graduatorie dei rimbalzi, delle  4 nomination come miglior giocatore della Nba.

Ed i record non finiscono qui.

In tutta la storia del basket non esiste un altro giocatore che abbia superato i 4.000 punti in una sola stagione, con la media impressionante di 50 punti a partita. Se consideriamo poi l’intera carriera, Wilt Chamberlain è secondo solo a Michael Jordan in quanto a media punti (30,07 contro i 30,12 di MJ). 217 centimetri di altezza per 125 chili, Wilt Chamberlain sfruttava le proprie doti atletiche sia in fase di attacco che di difesa, riuscendo anche a stabilire un record invidiabile: in quattordici stagioni nella lega professionistica statunitense, non raggiunse mai il limite dei sei falli, nonostante fosse il pilastro della difesa della sua squadra. Una delle sue pecche tecniche più grandi fu l’imprecisione nei tiri liberi, ne sbagliò 5805 (Shaquille O’Neal è secondo in questa curiosa classifica).

Ma gli americani  fanno medie con tutto, come le già citate ventimila donne con cui Wilt autocertificò d’ aver  giaciuto: 1,2 al giorno, se cominciò all’età di 15 anni.  Eppure Wilt avrebbe voluto raccontarcela  ancora la sua vita, una vita fatta di donne record e canestri: come ha rivelato Sy Goldberg, l’  avvocato che ne era diventato amico e che diede la  notizia della morte ai giornali, Wilt stava scrivendo una sceneggiatura per un film sulla sua straordinaria vita fuori dal comune. Peccato che un infarto l’abbia portato via nel sonno. Di sicuro, che fossero arrivati i  titoli di coda, Wilt probabilmente non l’ ha neppure sospettato.

E magari nel sonno sorrideva pure, nel ricordo di  quella fantastica ed irripetibile giornata di marzo del ’62.

Una curiosità:

Nel 1971 avrebbe dovuto combattere in un match di pugilato contro l’allora Campione del Mondo dei Pesi massimi Muhammad Ali, match che però non fu mai disputato. Alcuni dicono fosse una semplice trovata pubblicitaria per consolidare ancora di più la fama di due icone e simboli dell’orgoglio afro-americano, per altri invece il match era davvero in programma, ma saltò all’ultimo per un ripensamento del campione dei pesi massimi, in questa circostanza meno spavaldo del solito. Onestamente non sò dirvi come andorano davvero le cose, di sicuro al posto del grande Alì qualche ripensamento l’avrei di certo avuto anch’io!!! wilt e ali