Siamo nel 1962, in un paesino del Varesotto. Un ragazzino di appena 12 anni va ad una partita di pallacanestro portandosi un campanaccio delle mucche per fare chiasso. Nico Messina, allora responsabile del settore giovanile della Ignis Varese e futuro coach della squadra, lo nota, non per il rumore, ma perché è già qualche spanna più alto dei compagni, ne intuisce le potenzialità e lo convoca per l’allenamento il giorno dopo. Quel ragazzino che non ha nemmeno le scarpe da basket, all’allenamento si presenterà con un paio di Converse rosse comprate dalla mamma, rosse come il colore della Simmenthal Milano, acerrima nemica della Ignis. “Fu come andare all’allenamento dell’Inter con la maglia del Milan: ho scoperto così che “le scarpette rosse” erano il tratto distintivo di Milano, avversaria storica di Varese. Mia madre non sapeva, ma forse ha segnato un destino: a Milano avrei vinto anni dopo cose importanti”.

Quel ragazzino dimostra carattere, tempra e tenacia da vendere. Qualità che lo porteranno lontano, molto lontano a dire il vero: “il più Grande europeo di sempre” a detta di tutti!! ..e chissà se avesse accettato di volare dall’altra parte dell’oceano!! Ma andiamo con calma.

Nato ad Alano di Piave in Provincia di Belluno il 18 gennaio 1950, Dino Meneghin ha mostrato fin da subito tutto il suo talento per il basket, diventando a pieno merito il più grande cestista italiano di tutti i tempi, vincitore di 31 titoli, un record imbattibile. Quando Dino iniziò a lottare sottocanestro, la Pallacanestro non era ancora un fenomeno di massa, ma un piccolo sport minore. L’unico modo di vedere le sportellate dei giocatori era vederli giocare dal vivo, dato che la televisione, ancora in bianco e nero, era perennemente sintonizzata su “Lascia o raddoppia” del grande Mike Bongiorno.

Bene, Dino Meneghin ha reso famoso più di altri questo fantastico sport in Italia.

Dino è un ragazzo di 204 centimetri. Un giocatore molto duro ed estremamente tecnico ma leale, che si faceva rispettare anche dagli avversari, ed era tra tutti considerato uno di quei giocatori ideali per vincere.

Infatti Varese capisce subito il suo potenziale facendolo esordire in serie A nel 1966 a 16 anni, squadra con cui resterà fino alla stagione 1981/82.dino inizio Da subito emergono le sue grandissime abilità, le cifre sono vicinissime alla doppia-doppia di media. A Varese cominciò a vincere subito firmando un’epoca accanto a giocatori come Bob Morse, Aldo Ossola, Ivan Bisson. La Varese delle 10 finali europee consecutive di cui cinque vinte, era la sua squadra!! Quello che impressiona è il numero di titoli vinti: 7 scudetti, 5 Coppe Campioni (oggi Eurolega) e due sconfitte in finale in 7 anni, 2 Coppe delle Coppe, 2 Coppe Intercontinentali e 4 Coppe Italia. Numeri che renderanno grande la città di Varese agli occhi di tutti dando inizio alla nascita del mito varesino come società cestitica.

Nonostante i grandi successi in maglia Ignis, la carriera del grande Dino spesso viene soprattutto associata agli anni milanesi, forse perchè quelli sono gli anni nei quali Meneghin raggiungerà la definitiva maturazione e consacrazione conquistando di diritto un posto nell’Olimpo del basket italiano e non solo.

L’epopea di Varese finì nell’estate del 1981 con l’uscita di scena di Giovanni Borghi (fondatore della Ignis), che determinò in automatico la cessione di Meneghin. Gianmario Gabetti, da poco proprietario dell’Olimpia, ne fece una questione di principio. Così, finita l’esperienza a Varese, a Dino arriva la chiamata importante: quella dalla prestigiosa Olimpia Milano, la cui maglia veste nella stagione 1981/82 per volere di coach Dan Peterson, un chiaccheratissimo ed estroso allenatore vincente già in Italia con Bologna.

Meneghin passò da Varese a Milano, da una rivale all’altra anche se di fatto senza di lui e senza Morse (passato ad Antibes), i varesini non potevano più aspirare al titolo. L’Olimpia invece cambiò volto: con Meneghin centro (la sua prima stagione cominciò in ritardo per un infortunio al ginocchio), costruì una squadra alta, grossa e potente che utilizzava come ala piccola Vittorio Ferracini o Vittorio Gallinari, John Gianelli da ala forte e due tiratori da alternare come Franco Boselli e Roberto Premier, prelevato da Gorizia. In regia Mike D’Antoni giocava fino allo sfinimento: quando usciva, c’era Marco Lamperti, prodotto del vivaio milanese.

Anche in questo caso Dino Meneghin resta fedele ai colori del team rimanendo nel capoluogo lombardo fino al 1990, quando raggiunge l’età di quarant’anni. Il cestista però è un esempio di longevità agonistica e non smette con la pallacanestro se non nel 1994, all’età di quarantaquattro anni.

Nonostante tutte le pressioni del caso, al primo anno, arriva subito lo scudetto, e nei successivi 7 anni in maglia Olimpia, Meneghin si porta a casa altri 4 scudetti! A questi si devono aggiungere altre 2 Coppe Campioni, 1 Coppa Intercontinentale, 1 Coppa Korać e 2 Coppe Italia. Il tutto senza mai uscire dalle righe, rimanendo umile e un grandissimo lavoratore, e accontentandosi, con l’avanzare degli anni, anche di un minore minutaggio e una posizione leggermente defilata nella squadra.meneghin2

Tuttavia l’avvio a Milano fu difficilissimo: l’Olimpia perse in casa al debutto, a fine novembre perse 110-65 a Pesaro, la squadra di Dragan Kicanovic. Meneghin, a causa di un infortunio al ginocchio, debuttò solo il 6 dicembre a Rieti, con un’altra sconfitta fragorosa, 88-67. Perse anche a Varese, nel ritorno di Meneghin sul suo campo, nella sua città.

Ma Milano vinse 12 delle ultime 13 partite della stagione regolare, e nella post season giocò un quarto di finale sofferto contro Brescia vincendo gara 3 nel finale.

In semifinale vinse a Torino gara 1 (20 punti di Franco Boselli) e gara 2 a San Siro. La finale fu con la Scavolini dell’ex Mike Sylvester. L’olimpia giocò una grande gara nelle Marche vincendola 89-86 e poi si salvò in gara 2 – conquistando il ventesimo titolo ovvero la seconda stella – quando John Gianelli stoppò il tiro della vittoria di Sylvester in una memorabile partita. Gianelli segnò 39 punti nelle due gare della finale, conquistandosi un posto d’onore nella galleria dei grandi americani dell’Olimpia: era bianco, poco appariscente, lento ma dotato di grande mano, intelligente e difensore straordinario.

Lo scudetto fu l’inizio di una nuova era. La stagione successiva, l’Olimpia raggiunse di nuovo la finale di Coppa dei Campioni perdendola a Grenoble di un punto contro la Ford Cantù (Boselli ebbe il pallone della vittoria ma sbagliò il tiro dalla media che avrebbe completato la rimonta) e perse anche la finale scudetto contro Roma, trascinata dall’immenso Larry Wright. Nel 1984 a battere l’Olimpia in finale fu la Knorr Bologna di Roberto Brunamonti e Renato Villalta. Su quella serie resta una macchia indelebile: Bologna vinse gara 1 a Milano, ma l’Olimpia si riprese il vantaggio del campo in gara 2 quando Dino Meneghin fu espulso per proteste e squalificato tre giornate. Senza Meneghin in campo in gara 3, la Virtus ebbe la meglio.

La maledizione dei secondi posti cessò nel 1985, la stagione del crollo del palazzone di San Siro, il cui tetto venne sbriciolato dalla neve. L’Olimpia partì con Russ Schoene e Wally Walker come americani. All’inizio a faticare era il primo, giovane e poco quotato, ma al momento di firmare il grande Joe Barry Carroll, coach Peterson cambiò idea, rinunciò all’esperto Walker e tenne Schoene. Grande idea: Schoene diventò protagonista, firmò la vittoria in Coppa Korac e diventò un altro dei grandi americani dell’Olimpia. Carroll venne a Milano nell’ambito di una disputa salariale con i Golden State Warriors. Ex prima scelta assoluta, aveva mani fantastiche, talento e poca intensità. Lo soprannominarono Joe Barely Cares, ovvero Joe “Senefrega”. Ma a Milano entrò in sintonia con l’ambiente, giocò una stagione straordinaria e portò l’Olimpia al titolo senza sconfitte nei playoff. Nel 1986 Carroll tornò nella NBA, Schoene restò e Milano vinse ancora lo scudetto. Dopo Pesaro toccò a Caserta cedere alle truppe di Dan Peterson, la Caserta del giovane Nando Gentile e del terrificante bomber Oscar Schmidt. Dopo il secondo scudetto di fila, il terzo dell’era Peterson-D’Antoni-Meneghin, era però venuto il momento di tornare a vincere nell’Europa che conta.

Con una squadra che stava gradualmente invecchiando, l’idea dell’Olimpia era quella di cominciare tardi la preparazione per aumentare il periodo di recupero estivo delle sue grandi star, tutte oltre i trent’anni, anche a costo di cedere qualcosa nella fase iniziale della stagione. C’era anche un altro vantaggio: la possibilità di scegliere gli americani (a quei tempi due per squadra, Mike D’Antoni giocava da italiano) all’ultimo momento senza determinare scompensi nella costruzione del gruppo.

Nell’estate del 1986 in extremis, l’Olimpia firmò la prima scelta da Notre Dame, dei Los Angeles Lakers, Kenny Barlow, che poi avrebbe trascorso praticamente tutta la carriera in Europa e in particolare in Italia, ma soprattutto il vecchio leone, Bob McAdoo. “Fummo criticatissimi per queste scelte- ricorda coach Dan Peterson – Barlow era un universitario, aveva un chiodo in una caviglia, aveva avuto un incidente d’auto e partì lentamente. Ispirato dalla stampa, aveva anche il pubblico contro. Facemmo il Grand Slam ma le critiche ebbero un impatto. Barlow a fine anno fu lasciato libero e andò al Maccabi che ha portato alla finale la stagione dopo e quasi la vinceva. McAdoo? Lo trattavo da anni”.

Lo chiamavano DooDoo in America: ragazzo di Greensboro, North Carolina, grande fisico e mani d’oro, 2.05 di statura e un gioco da fuoriclasse ibrido, un po’ centro e un po’ ala forte. Fece un anno in un junior college dell’Indiana per mettere a posto i voti scolastici, poi andò a giocare a North Carolina da coach Dean Smith, non ancora completamente affermato e vi rimase un solo anno. Poi fu scelto al numero 2 dei draft NBA da Buffalo. La prima parte della sua carriera NBA fu contraddistinta da grandi performance realizzative prima a Buffalo poi anche nei New York Knicks e modesti risultati di squadra. Vinse tre volte la classifica marcatori NBA, fu Mvp nel 1975. Ma le sue squadre non vincevano mai. La seconda parte fu quella in cui passò ai Los Angeles Lakers dello Showtime di Pat Riley, Magic Johnson e Kareem Abdul-Jabbar. A McAdoo cucirono addosso un ruolo da sesto uomo di lusso, grande scorer partendo dalla panchina. Con McAdoo i Lakers vinsero due titoli NBA nel 1982 e nel 1985. Passò a Philadelphia ma nella NBA McAdoo era a fine corsa quando arrivò la chiamata di Milano.

Accolto con scetticismo – quali motivazioni avrebbe avuto? In quali condizioni atletiche sarebbe stato? Il suo gioco da solista si sarebbe adattato a Milano come era accaduto nei Lakers? – McAdoo rispose alla grande. Con lui, e Meneghin l’Olimpia vinse due scudetti in tre anni e due coppe dei campioni. Nel 1986/87 lo allenò Dan Peterson, dopo toccò a Franco Casalini. Fece coppia con Barlow il primo anno, poi Rickey Brown. Arrivato per restare brevemente finì la carriera giocando in Italia anche a Forlì e brevemente a Fabriano per poi tornare in America e diventare l’assistente storico dei Miami Heat, prima con Riley poi con gli allenatori successivi.

La squadra del 1986/87 vinse lo scudetto per la terza volta consecutiva, battendo in finale Caserta come aveva fatto nel 1986. Vinse anche la Coppa Italia (95-93 contro Pesaro in finale, 29 punti di McAdoo) ma il suo livello di successo in Italia non era più in discussione.

Lo era però la capacità di vincere in campo internazionale. Nel 1985 l’Olimpia aveva vinto la Coppa Korac ma il club aspirava alla grande affermazione internazionale. A quei tempi la Coppa dei Campioni era di una difficoltà abnorme: partecipavi solo se avevi vinto il titolo l’anno precedente o eri detentore del trofeo. Partecipavano poche squadre ma ogni gara era una battaglia. Problema ulteriore: per accedere al girone finale a sei, bisognava superare una sorte di turno preliminare che era già di livello mostruoso. L’Olimpia pescò dall’urna l’Aris Salonicco, la miglior squadra greca dell’epoca con i due migliori giocatori ellenici, Nick Galis e Panagiotis Yannakis che nel 1987 avrebbero portato la Nazionale ad uno storico oro europeo. La partita di andata a Salonicco fu una sorprendente disfatta. In un clima infernale come spesso in Grecia, l’Aris vinse 98-67, con 44 punti di Galis. Ma una battaglia drammaticamente persa creò i presupposti per un’impresa titanica, il +34 di una settimana dopo, 6 novembre 1986, al Palatrussardi di Lampugnano. Roberto Premier segnò 20 punti, Galis venne tenuto a 16. Notte di grandi emozioni, la rimonta graduale, +14 all’intervallo poi il fatidico +31 quando mancavano ancora cinque minuti da giocare. Partita tra le più famose nella storia del basket italiano e dell’Olimpia. Ma non è che il resto sia stato in discesa: l’allora Tracer Milano vinse una partita strepitosa a Tel Aviv 97-79 (Roberto Premier segnò 31 punti), ma perse il ritorno a Milano e per accedere alla finale dovette attendere l’ultima giornata, giocando a Pavia contro i croati di Zara.

Il titolo europeo venne conquistato in Svizzera a Losanna battendo il Maccabi Tel Aviv nell’ultima Coppa dei Campioni assegnata in atto unico. Si giocò in un palazzo del ghiaccio e ne uscì una battaglia. Il miglior realizzatore fu ancora Premier con 23 punti, tantissimi in una gara a punteggio basso. Ad un minuto dalla fine sul 69 pari, segnò Mike D’Antoni, poi Dino Meneghin – immagine diventata storica – si accartocciò su se stesso, vittima dei crampi e restò in campo (come riuscì a farlo non si sa), su una gamba sola. Il Maccabi ebbe il tiro per vincere la partita: lo prese il suo miglior tiratore, Doron Jamchy ma ne viene fuori un airball. L’Olimpia è campione d’Europa 21 anni dopo. Segna 21 punti il grande McAdoo e 18 li firma il discusso Barlow. E’ una squadra eccezionale, che conta anche su Boselli, Bargna, il giovanissimo Pittis e Vittorio Gallinari oltre l’immancabile Meneghin. Proprio Pittis è decisivo nello scudetto che per la prima volta venne assegnato al meglio delle cinque partite. La Tracer era sul 2-0 ma senza più energia quando ospitò la Girgi Caserta di Boscia Tanjevic e Oscar Schmidt. per chiudere i conti. Dopo 15 minuti era sotto di 20, Peterson decise di cercare forze fresche in fondo alla panchina e fu Pittis, due triple e due schiacciate, a cambiare l’inerzia della gara che venne controllata nella ripresa.

Nell’era Peterson il 1987 fu l’ultimo anno ma anche il migliore, quello in cui il grande coach dell’Illinois conquistò il titolo europeo e realizzò il famoso Grande Slam. Da allora tra le squadre italiane l’impresa sarebbe riuscita solo alla Virtus Bologna del 2001. Poco dopo Peterson, a corto di energie, decise di ritirarsi lasciando spazio a Franco Casalini alla vigilia di una stagione in cui avrebbe dovuto disputare anche la Coppa Intercontinentale, successivamente abolita.

Realizzato il Grande Slam, l’Olimpia dovette rinnovare per forza (il ritiro a soli 51 anni di Dan Peterson che per “cambiare” idea avrebbe atteso 25 anni) anche per ringiovanirsi. Sul mercato prese Piero Montecchi da Reggio Emilia (via Franco Boselli), Massimiliano Aldi da Livorno (via Vittorio Gallinari), ritagliò uno spazio più ampio per Ricky Pittis e viceversa si appesantì dentro l’area rimpiazzando il giovane e atletico Kenny Barlow con Rickey Brown, ex giocatore NBA di discreta caratura e già esperto d’Italia in virtù della sua militanza a Brescia. A fare da chioccia nello spogliatoio, l’immarciscibile Meneghin.

Un’altra novità era rappresentata dall’impegno prestagionale in Coppa Intercontinentale, l’unico trofeo mai vinto dal club e in programma proprio a Milano. L’Olimpia vinse e arricchì la propria bacheca ma fu costretta ad anticipare i tempi della preparazione rispetto alle stagioni precedenti. In qualche modo lo pagò: in Coppa Italia fu eliminata al secondo turno da Cantù (si giocava ad eliminazione diretta, in singola partita); in campionato sarebbe arrivata stanca e logorata da una lunghissima stagione (partecipò anche all’Open di Milwaukee, primo club europeo a partecipare ad una competizione ufficiale contro una squadra NBA, i Bucks che vinsero il torneo triangolare cui prese parte la nazionale sovietica che pochi mesi dopo avrebbe vinto l’oro olimpico a Seul). Contro la giovane Scavolini del nemico storico Valerio Bianchini perse 3-1 interrompendo la striscia di tre scudetti consecutivi.meneghin3

Ma la stagione 1987/88 passerà lo stesso alla storia per il secondo titolo europeo in una edizione dell’attuale Eurolega a suo modo rivoluzionaria, con un girone finale a otto e non sei squadre, quindi più lungo ma meno brutale perché avrebbe promosso quattro squadre al turno successivo, ovvero le Final Four, in programma in Belgio, a Gent. Fu la grande stagione di Franco Casalini, autentico prodotto Olimpia, ragazzo che dalle giovanili aveva fatto tutta la trafila fino ad arrivare da assistente in prima squadra. E dopo aver rinunciato ad altre opportunità per allenare come vice di Dan Peterson “la squadra della nostra vita”, fu la naturale prosecuzione del ciclo quando Peterson si chiamò fuori, logorato più nella testa che per altri motivi. Milanese, cuore biancorosso, Casalini per nove anni era stato il fido assistente di Peterson, la sua guida a Milano, e gradualmente aveva incrementato il proprio ruolo. Quando lasciò Milano, diventò capoallenatore a Forlì e quindi a Roma, ma riapparve in seguito sempre all’Olimpia da allenatore per le emergenze. Quindi di fatto dopo Peterson ci fu lui a portare la squadra sul trono europeo.

Come già l’anno precedente, anche nel 1988 la Coppa dei Campioni cominciò con una debacle: successe a Colonia, stavolta, un’inaspettata sconfitta di 24 punti subendone 102 nella quale l’unica nota positiva furono i 26 punti del “Papero” Montecchi, chiamato ad alleviare la pressione da Mike D’Antoni. Fu una sconfitta meno pericolosa perché avvenne nel girone eliminatorio e ci fu il tempo per rimediare, tra l’altro anche con una grande prestazione a Tel Aviv dove la Tracer vinse segnando 99 punti di cui 68 firmati dalla coppia McAdoo-Brown, forse uno degli americani più sottovalutati nella storia dell’Olimpia. Il girone fu altalenante, Nick Galis segnò 50 punti contro Milano quando l’Aris nel campo impossibile di Salonicco vinse di 25. Ma qualificarsi tra le prime quattro non fu un problema e a Gent si presentò una squadra esperta e decisa a confermarsi sul trono europeo. La semifinale proprio contro l’Aris fu vinta accelerando nel secondo tempo con 39 punti e 11 rimbalzi di McAdoo (i 39 punti sono ancora oggi record per le semifinali di Eurolega). Brown ne fece 28 e la Tracer vinse 87-82 imponendo il suo gioco interno. Così la finale fu la stessa di un anno prima, contro il Maccabi di Ken Barlow, uno che secondo coach Peterson venne fatto partire troppo in fretta. La rimonta del Maccabi trascinato proprio da Barlow nella ripresa è stoppata dai canestri della linea verde, Pittis e Aldi (15 punti in coppia). Milano vince 90-84 e si conferma campione d’Europa.

La vittoria in Coppa dei Campioni fu l’unico successo stagionale dell’Olimpia. In campionato, la Tracer arrivò alla finale scudetto, incontrando stavolta la Scavolini Pesaro del vecchio nemico Valerio Bianchini con Darwin Cook, Darren Daye e tre italiani di alto livello, tre nazionali, come Walter Magnifico, Ario Costa e Andrea Gracis. In una serie al meglio delle cinque partite, la Scavolini chiuse i conti sul 3-1 e diventò la rivale per eccellenza dell’Olimpia in quel particolare momento della sua storia. L’anno seguente, quello dello scudetto di Livorno e della chiusura del ciclo di vittorie di D’Antoni e Meneghin, di McAdoo e Premier, l’Olimpia eliminò Pesaro in una contestatissima semifinale che venne influenzata da un successo ottenuto a tavolino, per la prematura uscita dal campo di Meneghin, in gara 1, colpito da una monetina. L’Olimpia perse sul campo, ma vinse a tavolino e poi chiuse i conti in casa 2-0.

La storia di Dino si ferma qui? Neanche per sogno, perchè nel 1990, si avete capito bene, giocherà ben tre stagioni con la Pallacanestro Trieste ed un altro anno a Milano di ritorno (stagione 93/94), dove con 28 stagioni sulle spalle si ritirerà all’età di 44 anni, lasciando ancora adesso un vuoto sottocanestro.

A sottolineare la sua longevità agonistica c’è un evento più unico che raro. Il 14 ottobre 1990 è una data da ricordare per il basket italiano e per la famiglia Meneghin. Padre e figlio per la prima volta in campo insieme da avversari nel corso di una partita di Serie A. Dopo giorni di attesa, Varese, che schiera tra le sue fila il giovanissimo Andrea Meneghin, appena sedicenne, ospita Trieste, squadra del veterano Dino, quarantenne. Il giovanissimo Andrea fa il suo ingresso in campo a sette minuti dalla fine, in tempo per poter mettersi in mostra con qualche buona giocata e ricevere a fine gara, nonostante la sconfitta per 93-89, i complimenti dall’avversario più temuto e più amato: suo padre Dino.meneghin4

Nei giorni precedenti alla sfida Meneghin ‘senior’ non aveva nascosto una certa emozione e curiosità per una sfida assolutamente inedita come quella di scendere in campo contro il proprio figlio: “Una sensazione che manca alla mia lunga carriera” aveva dichiarato alla vigilia della sfida. Al termine dell’incontro un lungo abbraccio tra padre e figlio, a lungo applaudito dal pubblico, ha suggellato l’incrocio tra due generazioni della pallacanestro italiana. In quel giorno, inutile nasconderlo, per gli amanti del basket è stato impossibile trattenere le lacrime. Un simbolico passaggio di consegne tra il vecchio gigante un pò acciaccato, ma ancora indubbiamente in grado di dettare legge sottocanestro, ed il giovane ruggente pronto a prendere sulle sue spalle la difficile eredità lasciata dal padre.

«Andrea aveva 16 anni, io 40. È stata un’emozione fortissima, una grande soddisfazione per lui. Quando l’ho visto là in mezzo così magro mi sono sentito vecchissimo. Ho fatto fatica a giocargli contro, guardavo come si muoveva, mi preoccupavo dei contrasti duri. Lì ho capito che mai avrei potuto stare in squadra con lui, sarebbe prevalso l’istinto di proteggerlo».

In quel momento dunque il campione ha dato spazio al padre, l’agonismo dell’atleta all’amore per un figlio. Due uomini che hanno dato tanto al nostro basket tricolore (anche Andrea nel corso della sua carriera dimostrerà appieno la sua classe), in quel momento hanno legato indissolubilmente il loro cognome alla storia del basket italiano.

Al termine dei giochi, Meneghin totalizza 836 partite di campionato e 8.580 punti. Le partecipazioni alle finali di Coppa Campioni sono 13, con 7 vittorie.

Numeri pazzeschi che aiutano in parte a capire la grandezza dell’uomo prima che dell’atleta.

Ma come se non bastasse oltre che nelle squadre di club, la sua storia si basa anche su degli importantissimi successi con la maglia della Nazionale italiana.

E’ datata 1969 la prima chiamata in Nazionale. Nel 1971 si guadagna un bronzo agli Europei in Germania Ovest. Nel 1975 bissa il risultato in Jugoslavia. L’argento alle Olimpiadi arriva nel 1980, a Mosca e, nel 1983, vince l’oro agli Europei di Francia, nel pieno della sua forza e del suo splendore atletico, che trova riflesso tanto con la maglia azzurra che con le squadre di club nelle quali milita nel corso della sua lunga carriera.

Con la nazionale italiana poi, prenderà parte a ben quattro Olimpiadi, scendendo in campo per 271 volte, secondo per presenze al solo Pierluigi Marzorati che arrivò a 278. I punti con la nazionale ammontano a 2.947, anche in questo caso secondo in classifica, dietro ad Antonello Riva.

Tutti questi successi hanno permesso a Dino di essere il primo italiano nella storia a venire scelto in un draft NBA: nel 1970 fu chiamato all’11º giro (182º assoluto) dagli Atlanta Hawks, anche se per sua scelta il passaggio oltreoceano non avvenne mai. «Ho rinunciato un po’ perché mi ero rotto il menisco, che a quel tempo poteva pregiudicare la carriera, un po’ perché, per noi che eravamo considerati dilettanti, una sola partita in Nba significava passare al professionismo: di conseguenza non sarei mai più rientrato in Nazionale e avrei potuto tornare in un club italiano solo facendomi tesserare come “straniero”».

Sicuramente sarà stata una scelta difficile, ed in qualche modo anche coraggiosa e dettata dal cuore. Erano altri tempi, un’altra epoca, nella quale i passaggi oltreoceano non erano ne ben visti ne così frequenti come oggi. Di lui comunque ci restano quasi 30 anni di carriera pazzeschi, corredati da un impressionante numero di successi nazionali ed internazionali, una carriera più unica che rara difficilmente ripetibile nel vecchio continente. Detto questo siam sicuri che a lui come a noi resta però il rimpianto di non essersi cimentato col basket professionistico americano, che in quegli anni guardava gli europei come figli di un basket minore e dilettantistico.

Beh, son sicuro che il grande Dino dall’alto della sua classe cristallina e del suo basket sopraffino avrebbe saziato e fatto ricredere anche i più esigenti palati a stelle e strisce imponendosi finanche in America come stella del basket.

Il 5 settembre 2003 è diventato il primo giocatore italiano a entrare nella Basketball Hall of Fame di Springfield. In assoluto invece, è il secondo italiano inserito nella Hall of Fame, dopo Cesare Rubini, il cui riconoscimento però è legato esclusivamente alla sua attività di allenatore.

Fa anche parte della FIBA Hall of Fame e dell’Italia Basket Hall of Fame.

Nel 2007, Dino Meneghin, ha ricevuto in premio dal Comune di Alano di Piave le chiavi della città con la motivazione di aver fatto grande Alano nel mondo, con la sua abilità.

Questa è la storia di un ragazzotto di 204 centimetri partito dalle campagne di Varese, che da uomo ha conquistato le più alte vette del basket nazionale e continentale.

Questa è la storia di un simbolo di lealtà, professionalità, senso del dovere, sacrificio, duro lavoro e tante vittorie.

Questa è la storia del ” più grande giocatore europeo di tutti i tempi”. La storia di Dino Meneghin!!