LOBBY in RACCONTI DELL’ALTROMONDO

Basket playground.

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Recreation Centre. Venice Beach

Il basket playground nasce come espressione della persona, ogni gesto che si compie sul campo, ogni dribble, ogni jump shot, ogni slam dunk e’ un elemento distintivo che caratterizza il proprio gioco, e’ la concretizzazione di un modo di essere, il proprio style and the way of play assolutamente personale.

Al playground non si gioca a basket, la palla e’ si sempre la stessa, I giocatori in campo sono sempre gli stessi apparte alcune varianti (3vs3 o 1vs1) ma non ci sono sostituzioni e soprattutto non ci sono arbitri. E proprio per questo se qualcuno ti fa fallo lo devi chiamare: ”I got it”. Il gioco e’ sicuramente piu duro e maschio, i contatti che si consentono vanno oltre i limiti stabiliti dal basket professionistico cosi’ come le infrazioni. Ma rimane sempre your call che fa si che ognuno e’ libero di chiamare un po quello che gli pare. Il tutto a proprio rischio e pericolo vedi ripercussioni sull’altro lato del campo, chiamate di falli compensativi e trash talk dell’avversario in cui si viene definiti soft o viene apostrofata la propria chiamata con un “This is bullshit” o un “No way!” dipende con che gentiluomini si gioca in quel preciso momento.

I trash talk e’ una parte fondamentale del gioco, lo si vede spesso in NBA (ahime sempre meno per l’inasprirsi del regolamento) e questo ci spiega molte cose riguardo il background dei giocatori. Non giriamoci intorno: oltre l’80% dei giocatori NBA sono afroamericano, una buona percentuale di questi non  proviene esattamente da realtà agiate dell’upper class ma dal ghetto. I piu forti vengono selezionati nei College dove trascorrono una vita privilegiata per meriti sportivi ma e’ dal campetto o playground che vengono ed e’ li che finiranno se non saranno ritenuti abbastanza forti da andare in Nba o in qualche altro campionato professionistico.

Il basket e’ uno sport inventato dai bianchi, ma perfezionato dai neri al massimo livello atletico e fisico. Sembra scontato dirlo ora, ma non era cosi fino alla metà del secolo scorso quando gli afroamericani non erano ammessi tra i professionisti.

L’America e’ un paese strano, per capirlo bisogna andare in fondo alla loro cultura, e per far questo in fondo alla loro storia. Gli afroamericani si chiamano cosi appunto per la loro provenienza, che non era di sicuro dell’america del Nord.

Quando in Nba erano ammessi soltanto pochi eletti della comunità afroamericana, per una squallida politica segregatistica, i migliori giocatori di basket si trovavano sui playground, sono tantissime le storie di grandi campioni mai approdati in Nba, o passati velocemente salvo ritrovarsi immischiati in problemi di ben altro genere, roba di strada, questioni di quartiere.

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Negli anni sessanta, il nome più famoso è quello di Earl “The Goat” Manigault, un numero 1, alto poco più di 1.80 m, capace di schiacciare con due palloni, elevazione oltre il metro, talento smisurato, emblema di Harlem e del Rucker Park, uno che trascinava la sua squadra, che, prima di finire nella droga e in carcere, giocava alla pari con Lew Alcindor e Connie Hakwins, gente forte davvero, il primo magari così vi è nuovo ma sono sicuro che lo conoscerete col nome che prese in futuro, da star affermata in Nba, Kareem Abdul Jabbar. Fu lui a dichiarare che il più grande che avesse mai visto giocare era proprio the Goat, the greatest of all times, scioccando il mondo del basket.

Di storie così, negli States è pieno, specialmente in quegli anni, ma adesso non è tempo di storie di uomini, siamo qui a parlare di playground in senso lato!!

Il basket e’ diventato il gioco che è sui campetti di strada, dove i colored hanno creato tutto ciò che si sa adesso sul basket, i movimenti più spettacolari, cross overs, step backs e tutto il resto,  e se lasciate stare i movimenti professionistici o presunti tali (NBA e NCAA) che rappresentano meno dell’1% dei giocatori americani allora capirete che il basket e’ prima di tutto playground.

Il basket da playground nasce nei ghetti dove molto spesso gli appartenenti alle classi meno abbienti fanno dei proprio campetti trasandati , col cemento spaccato e i canestri di ferro vecchio il loro staples center. Il playground può essere considerato quello che per noi italiani e’ la piazza o l’agora, ovvero il cuore pulsante del quartiere, quello dove tutta la gente accorre quando si sparge la voce che qualche fenomeno sta giocando per esclamare “ HE GOT GAME!”.

Il Recreation Center di Venice beach e’ come lo staples center per gli abitanti dei sobborghi di Los Angeles così come Rucker Park e’ il Madison square garden per quelli di Harlem. Affermate star NBA quali Lebron, Bryant, Durant e tanti grandi del passato hanno giocato nei playground proprio a sottolinere il forte legame con il loro passato e con il luogo che per eccellenza riunisce gli appassionati e i praticanti di questo sport al suo livello piu’ puro.

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Rucker Park. Harlem, New York.

Se vi capita di passare da un campetto e di sentire “I got next” inteso come sono io il prossimo ed e’ mio il diritto di giocare la prossima partita, se non ho una squadra chiunque puo proporsi di farne parte chiedendomi “Do you need one?” oppure sarò io a fare le mie pick tra i giocatori disponibili. Come al draft. Chiunque puo essere il prossimo, senza burocrazie varie, nonnismi o senza venir giudicato per la propria qualità di giocatore; basta essere il primo ad essere arrivato o il primo di quelli che non giocano. Chi vince resta; sempre. A meno che non si giochino dei tornei come a volte accade nei playground piu importanti d’America; la prima squadra che arriva a 11, 13 o 15, parlo di canestri e non di punti ,rimane. Quello che consideriamo il tiro da 3 vale 2, a meno che non ci si accordi diversamente, il resto vale 1 e non esistono tiri liberi. Ogni fallo sull’azione o terminale che sia fa ricominciare l’azione con palla On Top (non esistono rimesse sul lato), e il gioco puo riprendere soltanto dopo che un avversario ha fatto il check . E’ cosi che la palla viene rimessa in gioco (ball’s in).

I campetti esistono anche in Italia ma l’intensita’ non e’ nemmeno paragonabile a quella messa sul campo negli USA. Il basket sul playground perde le connotazioni di un gioco di squadra e diventa uno showoff ,una dimostrazione delle capabilities di ciascun individuo intese come carattere e skills ovvero le qualita che si mettono sul campo. Quello che e’ in gioco va oltre il vincere o perdere,e’ il rispetto del proprio ‘hood, il proprio quartiere. L’avversario deve essere demolito prima mentalmente che cestisticamente, e’ l’istinto di sopravvivenza a prevalere. Per questo se vi capitera mai di prendere parte ad una partita in un playground Americano vi renderete conto che non sono ne le statistiche ne l espressione del gioco di squadra a fare la differenza ma semplicemente get the job done. E se questo lavoro deve essere fatto lo si deve fare con stile, non si deve aver paura ad esser loud in ogni giocata che questa sia un assist, una steal, un canestro in your face o (piu raramente) una slam dunk. Qualsiasi cosa si fa bisogna gridarla in faccia all’avversario perche’ la supremazia va dimostrata prima di tutto psicologicamente e poi c’e’ in ballo il rispetto. Quello dei tuoi compagni, degli avversari, di chi ti guarda mentre aspetta il suo turno e del proprio ‘hood.

Ma questo gli americani lo sanno.