18 marzo 1995. Sono passati quasi due anni da quel 6 ottobre 1993, giorno in cui Michael Jordan, dopo aver vinto tre titoli consecutivi con i suoi Chicago Bulls, decide di ritirarsi dal basket a soli 30 anni, distrutto per la notizia dell’avvenuta morte del padre, ucciso da due balordi che volevano rubargli la macchina. Le sue parole furono: “Ho perso ogni motivazione. Nel gioco del basket non ho più nulla da dimostrare: è il momento migliore per me per smettere. Ho vinto tutto quello che si poteva vincere. Tornare? Forse, ma ora penso alla famiglia.” Ebbene quel 18 marzo del 1995, dopo una breve parentesi nel baseball, anche per onorare la memoria del padre, Jordan decide di comunicare al mondo che è finalmente sua intenzione ritornare al basket giocato. Lo fa con due semplici parole rivolte alla dirigenza dei Bulls:
“I’m back”, ovvero “sono tornato”.
Due parole. Furono sufficienti per accendere l’entusiasmo di tifosi in ogni parte del mondo, per caricare di adrenalina chiunque sia appassionato di questo sport!
L’esordio il 19 marzo, contro i Pacers, qualche mese di ambientamento nel finale di stagione, il 32enne MJ con un nuovo numero sulle spalle, il 45, diciassette partite con medie da 26.9 punti, 6.9 rimbalzi e 5.3 assist, da capogiro per ogni mortale, decisamente sotto i suoi standard per uno che mai andava sotto i 30 di media.
Un inizio non facile per uno che aveva lasciato la Nba da assoluto dominatore, tante forzature, quasi due anni in più, nuovi giocatori che avevano messo le mani sulla Lega, le opinioni dei media parlavano di un ottimo giocatore ma non più His Airness, il re della Nba. Queste voci andarono avanti tre partite, alla quarta 32 punti, poi alla quinta via ogni dubbio, gli scettici a casa. Il teatro è inevitabilmente il Madison Square Garden, il parquet dei parquet, del resto non poteva essere diversamente per un giocatore la cui carriera è quanto di più simile ci possa essere ad una sceneggiatura da Hollywood. I Knicks vice-campioni Nba vengono sconfitti dai Bulls, in casa, Michael Jordan 55 punti, 21/37 dal campo, quella sera in tanti capirono che “MJ was really back”.
Ma i Bulls ancora non erano pronti, due mesi erano davvero pochi per mettere insieme un gioco da titolo Nba, così a Chicago dovettero arrendersi nei playoff, non riuscendo ad andare oltre il secondo turno. Ma, nonostante l’eliminazione nelle semifinali di conference contro gli Orlando Magic di Penny Hardaway, Shaquille O’Neal e dell’ex Horace Grant, quel Jordan seppe comunque regalarci un momento di pura poesia, un momento davvero magico. Nick Anderson, guardia dei Magic, incaricato di incollarsi ad MJ per tutta la partita, ogni partita della serie, dopo gara1, andò dai giornalisti a dire che il 23 era un altro giocatore, il 45 invece era soltanto un ottimo giocatore ma che poteva essere limitato con una buona difesa, niente a che vedere con il Jordan pre-ritiro.
Gara 2. Jordan si presenta con il numero 23, pagando una multa salata stante il divieto Nba di cambiare numero di maglia in corso di stagione. Il messaggio è chiaro, 23 o 45 è la stessa cosa, nessuno osi affermare il contrario. Jordan 38 con 7 rimbalzi, 17/30 dal campo, Magic sconfitti, Anderson distrutto. Chi vide quella partita, di per sè non determinante in realtà, chi vide Jordan entrare in campo con il numero 23, chi aveva aspettato due anni interi per quel momento, beh, non ci sono parole per descrivere quelle sensazioni, apòteosi!
La serie playoff alla fine andò a favore dei Magic, ma MJ era davvero tornato. Ciò che avvenne nei tre anni successivi è storia del basket.
Michael Jeffrey Jordan, the greatest of all times.