Work it out, tradotto significa “ce l’ha fatta”. Dopo quanto ha già dimostrato in carriera, sembra incredibile dirlo nuovamente, per l’ennesima volta. Eppure è così, perchè Marco ogni stagione ha fatto sempre un piccolo step verso una crescita ulteriore, e mai come quest’anno la sua considerazione oltre oceano era arrivata a livelli così alti. Adesso non è solo un buon giocatore, una guardia tiratrice, un elemento da quintetto, adesso è un giocatore da contender, ovvero uno di quelli buoni, da prendere in una squadra che vuole vincere. Insomma, non la guardia da piazzare in squadre da garbage time per fargli fare 20 tiri a sera, e magari 20 punti. Marco è un giocatore da squadra vincente, uno con gli attributi!

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Procediamo con ordine, e rivediamoli questi step, che hanno contraddistinto la sua carriera professionistica. Una carriera non facile, nonostante i mezzi fisici e tecnici a disposizione, perchè sin da ragazzino il suo obiettivo è la Nba, per vincere, non per partecipare. E per coronare il suo sogno, ha faticato, lavorato, sudato, quando magari semplicemente da superstar in Europa avrebbe avuto gloria, minuti a disposizione da subito, e forse anche più cash.

Marco, nella sua carriera Nba, si è sempre imposto una nuova sfida, dapprima quella di conquistarsi una chiamata Nba, vinta facilmente, poi quella di dimostrare di essere un giocatore da Nba, vinta dopo tanti sacrifici, nonostante la summer league di esordio facesse immaginare molte meno difficoltà di ambientamento. Infine, quella di dimostrare di essere un giocatore Nba di alto livello, uno importante per una squadra che lotta per il titolo, cui è arrivato attraverso gli Hornets, dove si era finalmente imposto come starter da Nba.

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Parliamo di un ex ragazzino prodigio, numero 1 nella sua annata, consacratosi elemento da Nba ufficialmente ai mondiali del 2006, con una prestazione pazzesca e una schiacciata in contropiede contro i fenomeni della Nba. Da lì, la chiamata al primo giro del draft 2007, una summer league da paura, con il top dei 37 punti realizzati in un match. Tutto faceva pensare ad un carriera Nba in discesa. E invece no, ci sono voluti sacrifici, ci sono stati momenti complicati, quando tutto il mondo remava per un ritorno in Europa. In nessuno di questi momenti Marco ha mai abbandonato la sua idea, un chiodo fisso, la Nba, consapevole di avere i mezzi per imporsi, del fatto che sarebbe stata sufficiente l’occasione giusta.

E così, dopo tre stagioni difficili, tra Golden State e Toronto, la svolta si chiama New Orleans Hornets. In realtà, la vera stagione difficile, quella in cui la delusione era tanta, fu quella dei Raptors, perchè ai Warriors era ancora giovane e la panchina in Nba, da ragazzino, si può accettare. Oltretutto, ad appena 20 anni, quanto ad “overall experience”, due anni a San Francisco, città meravigliosa, decisamente non sono da buttare via, a prescindere dai minuti giocati in concreto. A Toronto, invece, arrivava dopo una seconda stagione ai Warriors con qualche esploit davvero positivo, in cui aveva esibito le sue doti offensive, il suo tiro, e tutti pensavano che avrebbe finalmente fatto il salto di qualità, oltretutto aiutato dalla presenza di Andrea Bargnani, altro italiano e già stella del team canadese. Invece, dopo un inizio discreto, fu relegato in panchina, quasi senza motivazioni.

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Nessun dramma però, niente parole per rispondere alle critiche. Solo lavoro, allenamento, sudore. E la chiamata giusta finalmente arriva, per giocare in quintetto negli Hornets di una giovane point guard della Lega, tale Chris Paul. Con CP3 tutto è più facile, Marco trova la sua prima dimensione Nba, quella di guardia tiratrice in un pacchetto esterni con un playmaker che davvero può mettere in ritmo ogni compagno, e un’ala piccola atletica e votata alla difesa, come Trevor Ariza. Arriva la doppia cifra di media, con qualche prestazione sopra le righe, arrivano i playoff, nei quali, anche se alla fine gli Hornets vanno fuori al primo turno, Marco si concede il lusso di metterne 18 una sera contro i Los Angeles Lakers di Kobe Bryant, poi finalisti e futuri bicampioni Nba negli anni a seguire.

La seconda stagione a New Orleans è comunque positiva, Marco si conferma grande tiratore, ma senza CP3, volato a LA, sponda Clippers, la squadra non gira. Raggiunge comunque quasi 12 punti di media, il top della sua carriera, realizzati però in un contesto non significativo. A quel punto, è arrivato il momento di cambiare aria. In Nba, dove sono poco propensi a guardare oltre le statistiche, nel 2012 Belinelli era visto ancora come un gran tiratore dalla lunga distanza, starter magari a medio livello, ad un livello superiore come il perfetto giocatore che entra dalla panchina per aprire le difese avversarie, un Dell Curry (padre di Steph ed ex giocatore Nba ai Charlotte Hornets) dei giorni nostri.

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Source: Bruce Bennett/Getty Images North America

Con questa opinione dei media statunitensi cucita addosso, Marco sbarca ai Bulls, finalmente in una squadra da vertici della Nba, nonostante l’assenza di Rose per l’intera stagione. Come detto, viene preso essenzialmente come specialista del tiro da tre punti, giocatore ordinato, difensore discreto, più che altro grazie ad un grandissimo impegno sul parquet, anche se atleticamente inferiore rispetto alle altre guardie colored della Nba, esattamente l’opposto rispetto alle origini italiane, dove era sempre stato la prima stella assoluta, il realizzatore per eccellenza, quello legittimato a prendersi pause difensive. E invece si sbagliavano di grosso.

Tutti conoscete Drazen Petrovic, sicuramente. Sapete qual’ è la frase che più si ripete su di lui in relazione alla sua permanenza in Nba?  “Drazen all’iniziò pagò la fisicità Nba, poi si allenò duramente, si ricostruì il fisico, cambiò il suo gioco e.. “,  beh, quello che è successo nei due anni successivi lo sapete tutti, compreso il triste e tragico epilogo.

Senza voler fare un paragone cestistico con l’inarrivabile Mozart croato, che a 28 anni, quando morì tragicamente, era in pratica la seconda guardia Nba dietro Michael Jordan, Marco Belinelli ha dimostrato ai Bulls di avere carattere, grinta e voglia analoghi, non ha mollato un attimo, si è allenato come pochi, ha scelto la strada più dura, tutto in vista di un unico obiettivo, giocare in Nba, ad alto livello, in una squadra di alto livello. 

Marco la scorsa stagione ha dimostrato di essere uomo da Bulls, producendo più di 10 punti a partita con 2 assist e 2 rimbalzi in 25 minuti di media, medie che crescono esponenzialmente nelle gare che ha disputato in quintetto, con più minuti a disposizione. Nel corso della stagione, oltretutto, Belinelli ha dato sfoggio di novità tecniche che non aveva all’inizio della sua carriera Nba. Ai Bulls si dimostrato un giocatore completo, ovviamente tiratore come pochi, anche da distanze siderali, spesso uomo del canestro decisivo o del buzzer beater, capace anche di giocare il pick’n roll dal palleggio, sia per concludere in proprio che per servire un assist al bloccante di turno, nella fattispecie Bulls, Boozer o Noah.

In più, nel suo bagaglio tecnico ha esibito altre qualità, quali un superiore IQ cestistico, frutto anche della maggiore esperienza, una maggiore visione di gioco e la capacità di trovare il compagno smarcato, restando in difesa un agonista tremendo, uno che non molla mai, perchè farsi battere decisamente non rientra nel suo DNA. Certo non potrà mai essere l’atleta numero 1 in Nba, ma in campo ha sempre il coltello tra i denti e questo, insieme alla sua tecnica, fa la differenza. E lo ha notato un certo Gregg Popovich, mica uno dei tanti.

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La vera differenza, quella che probabilmente gli è valsa la chiamata Spurs, sono però i numerosissimi canestri decisivi allo scadere, e soprattutto i playoff pazzeschi che ha disputato in maglia Bulls (12 punti, 4 assist e 3 rimbalzi di media), portati alla semifinale di conference nonostante le molteplici defezioni nel roster. La chicca resta ovviamente la gara7 contro i Nets (BROOKLYN-CHICAGO 93-99 — 4 maggio 2013), nella quale Beli ha portato di peso i Bulls alla semifinale a Est contro Miami: chiuse con 24 punti, 6 rimbalzi, 5/8 da due, 3/6 da tre, 9 punti negli ultimi 5′, gli ultimi 6 per non far rientrare Brooklyn oltre il -4. Ne aveva segnati già 22 nella gara-6 in cui non gli entrò solo il tiro dell’overtime. Dimostrò di avere due attributi pazzeschi, riconosciuti anche dalla Nba, dato che Stern lo ha multato proprio per i cojones, esibiti metaforicamente dopo un canestro decisivo!

In Nba, come detto, guardano le statistiche, ma ancor di più il rendimento nei playoff, nelle gare decisive. Gli Spurs guardano oltre, cioè valutano l’uomo prima e il giocatore dopo. E, inoltre, se la prima valutazione è positiva, scelgono il giocatore in funzione del sistema, e non modificano il sistema in funzione del giocatore. Certo, a meno che tu non sia Manu Ginobili, che ha convinto il coach a decentrare il baricentro offensivo degli Spurs da Duncan al settore esterni, velocizzando anche contropiede e transizione. Popovich è furbo, quando dieci anni fa si rese conto di cosa aveva tra le mani quando si ritrovò questo argentino in squadra, non ci mise poi tanto ad adeguare la propria filosofia, per vincere.

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Ma torniamo a noi, gli Spurs hanno creduto in Belinelli, e Marco li sta finora ripagando con una stagione eccelsa, da oltre 10 punti, quasi 3 rimbalzi e 3 assist di media. Certo, è il sistema Spurs che ti aiuta a giocar bene, ma per entrare nel sistema devi dimostrare di averne il valore, devi avere talento, devi avere due palle quadrate. Per farvi capire, ragionando sui 36 minuti, Belinelli avrebbe 17 punti, 5 rimbalzi e 4 assist di media, davvero cifre che fanno impressione. Oltretutto tira con oltre il 50% dalla lunga distanza, primo della Nba, e ovviamente questo gli dovrà valere, salvo imprevisti, una selezione per l’All Star Game, per la gara da tre punti.

Ciò che stupisce è l’ennesima dimostrazione del suo talento, capace di inserirsi in un meccanismo già perfetto, con una produttività incredibile, senza eccessi, senza errori, conquistando in breve tempo la fiducia di un coach come Gregg Popovich. Belinelli è stato superlativo, è già un ingranaggio perfetto di una macchina che gira con precisione millesimale, ha conquistato minuti, tiri e soprattutto diritti. Certo, è partito dalla difesa e dal suo grande tiro, ma a differenza dei suoi predecessori, ad esempio Danny Green, adesso ha anche il pallone tra le mani, gioca il pick’n roll (prima competenza esclusiva di Ginobili e Parker), fa partire l’azione, talvolta porta palla, è attivo offensivamente ben oltre il semplice ricevere gli scarichi e realizzare.

La strada è ancora lunga, Belinelli finora le sue sfide le ha vinte tutte, adesso è in una squadra che lotta per il titolo, ed è importante per davvero. Davanti si ritroverà i Thunder, i Blazers, i Warriors, dall’altra parte Pacers o Heat. Adesso ha una nuova sfida, l’ennesima, aiutare Ginobili, Duncan e Parker a conquistare il titolo Nba, da protagonista. Come on Belli Nelli, l’Italia è con te.

Andrea Di Vita