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I Chicago Bulls sono la terza squadra NBA a Chicago, dopo i Chicago Packers/Zephyrs (ora chiamati Washington Wizards) e i Chicago Stags (1946-1950). La squadra ha iniziato a giocare nella Nba nella stagione 1966-67, facendo subito il miglior record come nuova squadra nella storia dell’NBA e qualificandosi per i playoff. Durante gli anni settanta, i Bulls erano conosciuti come una squadra dura e con una mentalità difensiva, che riuscì a vincere un titolo della Division senza però mai arrivare alle Finals.

Dalla fine degli anni ’70 e i primi anni ottanta, la squadra toccò il fondo della classifica. I Bulls erano una delle peggiori franchigie NBA, avendo disputato diverse stagioni letteralmente disastrose, fra quelle con meno spettatori, tanto da aver valutato l’opportunità di spostarsi da Chicago per cercare maggiore pubblico.

Ma mai come nello sport spesso le cose possono improvvisamente cambiare. Nell’estate del 1984 i Bulls ricevettero la terza scelta all’NBA Draft dopo gli Houston Rockets e Portland Trail Blazers. Dopo che i Rockets scelsero Hakeem Olajuwon e i Blazers presero Sam Bowie, i Bulls si assicurarono la guardia tiratrice Michael Jordan, proveniente dalla University of North Carolina, Chapel Hill. Sarà proprio intorno a Michael Jordan che si formerà, a poco a poco, una nuova squadra, che arriverà poi a essere la dinastia che ha dominato la lega statunitense negli anni novanta.

Il fatto che Jordan non sia stato la prima scelta assoluta, col senno di poi, può apparire un incredibile errore da parte degli scout NBA. Tuttavia questa situazione non deve stupire: altri fuoriclasse, come Larry Bird o Kobe Bryant hanno avuto una sorte simile ed il draft del 1984 è generalmente considerato il più ricco di tutta la storia dell’NBA, comprendendo un numero impressionante di future stelle, fra i quali è doveroso ricordare Charles Barkley (5ª scelta assoluta) e John Stockton (16ª scelta), oltre ai già citati. Tradizionalmente le squadre NBA privilegiano la scelta di centri rispetto a guardie o ali, seguendo alla lettera la frase del mitico allenatore di UCLA, John Wooden che diceva “Nel basket si può insegnare tutto meno che l’altezza”.

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In tal senso, la prima scelta assoluta nel draft di Hakeem Olajuwon, un centro dal talento cristallino, e probabilmente più affermato di Jordan a livello universitario, fu considerata una decisione assolutamente logica e condivisa dall’intera critica.

Meno condivisa la scelta dei Portland Trail Blazers di chiamare Sam Bowie come numero 2. Tuttavia è necessario chiarire che Sam Bowie era considerato un centro di enorme talento con un curriculum NCAA di altissimo profilo, e che molti critici ritengono che le sue alterne fortune in campo professionistico siano soprattutto da imputare all’incredibile serie di infortuni che lo perseguitarono, fra cui quattro consecutivi nei primi due anni di professionismo. Non è poi da escludere che il fatto di essere quotidianamente comparato a talenti del calibro di Jordan, Olajuwon o Barkley e di sentirsi costantemente rinfacciare i grandi traguardi conseguiti da questi campioni, tanto da vedersi rapidamente appiccicare addosso il crudele nomignolo di bust (“fallimento”, “bidone”), abbia avuto un impatto fortemente negativo sul rendimento di un giocatore che, comunque, ha giocato nell’NBA per undici anni con statistiche di buon livello.

Inoltre, per giustificare almeno in parte la scelta di Portland, è doveroso ricordare come al draft dell’anno precedente questa franchigia avesse scelto Clyde Drexler, praticamente pariruolo di Jordan ed a sua volta considerato uno dei più grandi giocatori di tutti i tempi, tanto da essere incluso nel Naismith Memorial Basketball Hall of Fame.

 Infine va considerato che molti critici nutrivano dei dubbi sul fatto che lo stile di gioco di Michael Jordan, basato sulla velocità e l’esplosività fisica, potesse avere un impatto vincente anche a livello NBA, dove avrebbe incontrato giocatori atleticamente e tecnicamente molto più dotati che non nel torneo NCAA.

All’inizio dunque, non tutti gli appassionati e addetti ai lavori erano pienamente convinti del suo assoluto valore: per molti è uno dei tanti atleti dotati di talento che però non saranno mai vincenti perché troppo solisti. In quegli anni quindi, non c’è ancora unanimità sul fatto che Michael sia il miglior giocatore del momento, e molti ancora gli preferiscono Magic Johnson che riesce a condurre i suoi Los Angeles Lakers ad un’impresa che nell’NBA non riusciva da ben 19 anni: ovvero, vincere il titolo due volte consecutivamente, “back-to-back” come sentenzia lo slang cestistico americano. Beh, come vedremo Jordan e i suoi Bulls andorono ben oltre.

-mj pistIn realtà, questa idea che a volte emerge di un Michael solista è dovuta al fatto di avere compagni di squadra non all’altezza di giocare con lui: ciò lo porta a volte a intraprendere più iniziative del normale, ma solo in vista del bene della squadra e non della glorificazione personale. Infatti, i suoi Chicago Bulls crescono anno dopo anno finché alla fine del decennio cominciano ad essere considerati uno dei top team della Lega, anche perché gradualmente vengono aggiunti alla rosa dei Bulls nuovi giocatori che ne completano le lacune. Su tutti, nel draft del 1987 verrà preso Scottie Pippen, che avrà una capacità di evoluzione tecnica diventando una delle ali piccole più forti della storia.

I Bulls, prima di Scottie Pippen, erano una sorta di Jordan contro tutti, celebre rimase la dichiarazione di Larry Bird, al termine di una gara playoff, chiusa da MJ con 63 punti, ma vinta dai Celtics, che disse “Non era MJ. Era Dio travestito da MJ”! Ma Jordan giocava da solo per provare a vincere, non per egoismo o per avere la gloria personale. Lui voleva vincere!

Esaurito il periodo degli imbattibili Celtics, intorno al 1987-88, sulla loro strada si pone però una delle compagini più forti di sempre: i Detroit Pistons di Isiah Thomas, Joe Dumars e Dennis Rodman, i cosiddetti Bad Boys per il loro modo maschio di affrontare le gare, specialmente le più decisive. Abbinato a valori individuali notevoli ed un amalgama di squadra ferreo, diventano una formazione troppo dura da superare per chiunque, e, se concedono ai Los Angeles Lakers la loro prima finale (1988), li surclasseranno l’anno successivo nella rivincita (4-0 nelle finali) e ripeteranno subito il back-to-back appena realizzato dai californiani.

I Bulls se li ritrovano nella Midwest Division, e quindi li affronta nelle finali della Eastern Conference; dopo avergli già cozzato contro un paio di volte, il 1990 sembra l’anno buono: arrivati in gara-7 a Detroit (che ha un miglior score in regular season), finisce 93-74 per i “Pistoni” con partita già chiusa nei primi minuti e l’aneddoto di Jordan che spacca una sedia al rientro negli spogliatoi nell’intervallo per esprimere la rabbia sullo scarso rendimento ed impegno dei propri compagni. Il disappunto di Michael è aumentato dal fatto che con molti giocatori di Detroit vive una rivalità anche extra-sportiva, con continui frecciate nelle interviste anche con riferimenti extra-cestistici.

Al di là degli scetticismi, e nonostante non fosse ancora riuscito ad arrivare nemmeno ad una finale assoluta NBA, tuttavia alcuni già considerano Jordan il più forte cestista di tutti i tempi: difatti, il suo gioco, elettrizzante da un punto di vista spettacolare, rasenta la perfezione anche su un piano tecnico, e in molti si fa strada la convinzione che non sia possibile giocare meglio.

Il tempo sembra comunque essere maturo. Vincente si rivelerà la strategia societaria dei Chicago Bulls: invece di stravolgere la squadra ogni anno e cercare jordan-vs-birdgiocatori affermati qua e là per rinforzarne il pacchetto, lo staff manageriale e quello tecnico, guidato da coach Phil Jackson, decidono di confermare anno dopo anno la rosa che hanno a disposizione e lasciar crescere la squadra sia a livello individuale che collettivo.

La vera consacrazione di Michael come dominatore assoluto del basket mondiale, arriva all’inizio degli anni novanta, quando i Bulls raggiungono un livello di gioco che coniuga un mix esplosivo di talento, creatività e spettacolo uniti al sacrificio e alla dedizione verso la fase difensiva del gioco, illuminati da Jordan che gioca una pallacanestro a livelli ineguagliabili, rasente il limite della perfezione mai vista prima e mai più rivista da nessun giocatore dopo di lui.

In tre anni, nel 1991 contro i Los Angeles Lakers di Magic Johnson e James Worthy, nel 1992 contro i Portland Trail Blazers di Clyde Drexler e nel 1993 contro i Phoenix Suns di Charles Barkley, Kevin Johnson e Dan Majerle, i Chicago Bulls vincono tre titoli NBA in fila, realizzando il cosiddetto three-peat (gioco di parole traducibile più o meno come tri-petizione che fonde il numero “three” e il termine “repeat”) che nessuna squadra faceva dai tempi dei leggendari Celtics degli anni sessanta.

Nei play-off, ed in particolare nelle finali, Michael è semplicemente inarrestabile, polverizzando un record dietro l’altro (su tutti quello di più alta media realizzativa di punti in una serie di finale con la strabiliante cifra di 40 punti, stabilito nel 1993 contro i Phoenix Suns), e vincendo anch’egli tre titoli consecutivi di MVP delle finali NBA (altro record, in quanto cosa mai riuscita a nessun altro giocatore nella storia della NBA fino ad allora, solo in seguito (2000/2001/2002) Shaquille O’Neal saprà ripetere tale impresa).

index2Nel 1991 la superiorità dei Bulls comincia ad emergere nella seconda parte della regular season, tanto che i Bulls sono unanimemente accreditati come una delle favorite per il titolo: Detroit, pur ancora massimamente competitiva, sembra aver esaurito il suo impeto agonistico tanto che per la prima volta colleziona un record di vittorie in stagione inferiore a quello dei Bulls, accumulando nette sconfitte negli scontri diretti. Nuovamente affrontata in Finale di Conference, Chicago surclassa Detroit con un cappotto (4-0) che spingerà i “Pistoni” ad abbandonare il campo qualche secondo prima della fine di gara-4 per non poter sopportare una tale umiliazione.

Ad Ovest c’è Portland con il miglior record in regular season, ma è battuta nella Finale della Western Conference dagli esperti Los Angeles Lakers: la finalissima sarà Michael contro Magic, il meglio che questo sport potesse offrire. Pagato lo scotto dell’inesperienza in gara-1, vinta all’ultimo secondo dai Lakers, in gara-2 i Bulls, capitanati da Jordan, esprimono tutto il loro potenziale e travolgono i Lakers con il maggiore distacco in una Finale NBA. Finirà 4-1. Il passaggio di consegne tra i due, la fine del dualismo Magic – Bird, l’inizio dell’era Jordan!

Nel 1992 molti sono gli scettici riguardo ad una riconferma dei Bulls come squadra al vertice, ritenendo il successo dell’anno prima come il massimo sforzo fatto dal grande campione per arrivare finalmente ad un titolo. Ma già dall’inizio la stagione regolare è dominata dai Bulls, più carichi e motivati che mai e con il solito rendimento mostruoso di Jordan; all’arrivo dei playoff si pensa che sia difficile strappargli anche una sola partita. Gli unici che possono pensare ad insidiarli sono i Portland Trail Blazers di Clyde Drexler, considerato il diretto rivale di Jordan sia perché ritenuto la seconda miglior guardia della Lega professionistica al di fuori di lui, sia perché riveste il suo stesso ruolo che interpreta tra l’altro in maniera analoga. Tuttavia sulla strada dei Bulls c’è un ostacolo imprevisto: al secondo turno dei playoff ad Est arriva una squadra emergente, i New York Knicks del nuovo allenatore Pat Riley. Si tratta di una squadra che vede la presenza di un solo grande giocatore, il centro Patrick Ewing, ma che ricalca il modo di giocare duro dei Detroit Pistons di qualche anno prima, che tante difficoltà aveva creato ai Bulls.

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Michael e i suoi sono costretti a giocarsi tutto in gara-7, quando con il senno di poi, si deciderà un pezzo della storia di questo sport. Vinceranno senza troppe difficoltà e d’ora in poi non avranno grossi ostacoli verso la conquista del loro back-to-back (ormai una tradizione) nonostante concedano 2 gare in ciascuna delle serie contro Cleveland e Portland in Finale.

Il suo scontro diretto con Drexler viene deciso fin dalle prime battute: nella gara-1 delle Finali andrà a riposo nell’intervallo del primo tempo con l’incredibile score personale di 35 punti, cui contribuisce una entusiasmante serie di 6 canestri consecutivi da 3 punti, conditi da altre giocate mozzafiato. A seguito dell’ennesimo canestro da tre, rimane famosa un’occhiata di Jordan che alza le spalle come a dire “che ci posso fare? Entrano tutte…”.

Il pubblico del Chicago Stadium è in delirio e in ogni angolo del pianeta che guarda l’NBA si salta sulle sedie; anche in Italia, nonostante fossero le 3 di notte. Dopo la vittoria dei Bulls in gara-6 Drexler disse:” All’inizio della serie pensavo che Michael avesse 2000 mosse diverse. Mi sbagliavo. Ne ha 3000.”

0000000Le finali del 1993 presentano una variante sul tema: esplode il fenomeno Charles Barkley che, passato in estate da Philadelphia 76ers ai Phoenix Suns per ambire ai massimi traguardi, disputa una stagione eccezionale conducendo il suo team al miglior record nella stagione regolare, superando anche i Bulls che sembrano leggermente appagati. La critica elegge Barkley MVP, quale miglior giocatore della regular season, osando “ignorare” Jordan che comunque si mantiene ai suoi livelli; nonostante l’eccezionale performance di Barkley, per molti suona come un tentativo di contrastare con il domino assoluto in tutti i campi, anche mediatico, di Jordan e dei suoi Bulls. La resa dei conti sarà nella Finalissima, cui giungono entrambe le squadre e che risulterà la più equilibrata tra quelle del primo three-peat.

Con i Bulls in vantaggio 3-2, si ritorna in Arizona per le sfide decisive: gara-6 sarà al solito molto combattuta e si arriva all’ultimo possesso con i Bulls palla in mano e sotto di 2 punti.

Un’ eventuale gara-7 li vedrebbe giocarsi il titolo in una partita secca giocata fuori casa. Jordan è stato l’autore di tutti i 9 punti finora effettuati dai Bulls nel 4º quarto ma, contro abitudine, non si incarica del tiro; raddoppiato dalla difesa di Phoenix trova la lucidità, l’umiltà e la fiducia di affidare la palla a Scottie Pippen, il quale vede sotto canestro smarcato Horace Grant, il quale potrebbe comodamente appoggiare per il pareggio. Tuttavia costui è in profondissima crisi di gioco, avendo segnato in due partite la miseria di 2 punti e avendo poco prima sbagliato diverse conclusioni facili. La palla è quindi repentinamente ceduta a John Paxson, appostato sull’arco da 3 punti, per il tiro che varrà non solo il pareggio ma la vittoria della partita per 98-99 e dell’intera serie: è il 3º titolo consecutivo.

Michael dirà: “questa vittoria mi pone su un piano diverso rispetto a Magic e Bird”. Una situazione analoga si ripeterà in futuro, con Steve Kerr nei panni di John Paxson.

Nel 1993, all’apice dei successi per i Bulls, succede l’imprevedibile: venne assassinato il padre di Jordan, James. Di ritorno dal funerale di un amico, decise di fermarsi sul bordo di un’autostrada interstatale nella Carolina del Nord per riposarsi un po’. Mentre stava dormendo, due criminali locali si fermarono, lo uccisero e rubarono la sua Lexus, che gli era stata regalata proprio da Michael. Gli autori del fatto furono rapidamente rintracciati poiché avevano effettuato alcune chiamate con il telefono cellulare della vittima.

Il 6 ottobre 1993, in una conferenza stampa sovraffollata di giornalisti, Michael comunica alla Lega e al mondo la sofferta decisione di lasciare la pallacanestro. Le sue parole sono: “Ho perso ogni motivazione. Nel gioco del basket non ho più nulla da dimostrare: è il momento migliore per me per smettere. Ho vinto tutto quello che si poteva vincere. Tornare? Forse, ma ora penso alla famiglia.”

Insieme alla perdita degli stimoli, è la morte del padre ad incidere sulla difficile decisione presa da Michael. James Jordan era stato un grande appoggio per il figlio, che gli era profondamente affezionato, e lo aveva sempre incitato, anche se avrebbe preferito vederlo giocare a baseball, il suo sport preferito.

Questa pesante scelta getta nel panico non solo i compagni di squadra e la società, ma anche milioni e milioni di fans che da ogni parte del mondo piangono per la decisione del loro idolo e per le sorti della loro squadra del cuore.

Il 9 settembre 1994, un anno dopo il suo ritiro, gioca un’ultima volta al Chicago Stadium, prossimo alla demolizione, in una partita di beneficenza organizzata da Scottie Pippen, uno dei compagni di squadra “storici” e grande amico. Nel nuovo impianto, lo United Center, viene tenuta qualche giorno dopo la cerimonia ufficiale d’addio del giocatore, con il ritiro della maglia numero 23.

Davanti al nuovo stadio della “città del vento” viene posta una grande statua di Jordan impegnato in una schiacciata con una targa con le parole: “The best there ever was, the best there ever will be”, ovvero “il migliore che ci sia mai stato, il migliore che mai ci sarà”.

Nei successivi due anni per la devozione verso il defunto padre, e per dimostrare di poter primeggiare in un’altra disciplina, Jordan tenta la carriera nel baseball professionistico.

Nel basket, l’addio di Jordan, apre nuovi scenari con una insperata lotta per la successione al titolo. A spuntarla gli Houston Rockets di Akeem Olajuwon che si affermano campioni sia nel 94 che nel 95, con il nigeriano mvp delle finali in entrambi i casi, ed mvp della Nba nel 1994. E qui si ritorna alle premesse di cui sopra, al draft e alle sue dinamiche. Nessuno potrà mai accusare i Rockets di aver fatto un errore a selezionare Olajuwon e non Jordan.

È il 18 marzo 1995 quando, alle 11:40, viene diramato un breve comunicato: “Michael Jordan ha informato i Bulls di aver interrotto il suo volontario ritiro di 17 mesi. Esordirà domenica a Indianapolis contro gli Indiana Pacers.”

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Bastano queste poche parole per scatenare un delirio tra i tifosi, non solo quelli di Chicago. Il giorno dopo Michael Jordan si presenta a una conferenza stampa, ancora una volta superaffollata, con poche ma efficaci parole: “I’m back” (“Sono tornato”).

Come ulteriore segno di cambiamento, Michael sceglie di usare al posto del mitico numero 23 sulla maglia il 45, numero che aveva quando giocava a baseball da piccolo, e suo reale numero preferito. Ritornerà in seguito a usare il numero 23, inizialmente non utilizzato anche perché ritirato dalla squadra di Chicago.

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Inizia un nuovo ciclo per i Chicago Bulls, che nei due anni senza Jordan avevano raggiunto risultati deludenti, arrivando comunque ai play-off. Con alcuni giocatori della vecchia squadra, come Scottie Pippen e alcuni nuovi innesti, tra i quali spiccano il croato Toni Kukoc (già avversario di Pippen e Jordan con la Croazia, ai Giochi olimpici di Barcellona) e Dennis Rodman, sempre sotto la guida di coach Phil Jackson, la squadra riprende la sua “routine” di vittorie nella stagione successiva a quella del ritorno di MJ. La stagione del ritorno dimostra che Michael ha risentito solo in parte dello stop di circa un anno e mezzo; la squadra comunque non riesce a raggiungere le finali, venendo eliminata ai play-off dagli Orlando Magic. Proprio in una gara di play-off contro Orlando, Jordan commette alcuni errori decisivi; il giocatore dei Magic Nick Anderson, in un’intervista, parla del numero 45 dei Bulls come di un giocatore forte ma non quanto il 23, che era paragonabile a Superman. Stuzzicato dal rivale, MJ dalla partita successiva in poi tornerà ad indossare la maglia numero 23 (che non abbandonerà più per il resto della carriera) pagando una multa per ogni partita di play-off giocata con quel numero (nella NBA infatti è proibito cambiare numero di maglia a stagione in corso senza richiederne preventivamente l’autorizzazione).

Scottato dalla sconfitta nella precedente serie di playoff, Jordan passa l’estate a prepararsi duramente in vista della nuova stagione. In quella che seguirà, la stagione 1995-1996, Jordan è di nuovo protagonista assoluto e i Chicago Bulls ottengono un’altra stagione superlativa.

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La squadra fa segnare un record assoluto nella NBA: sono la prima formazione nella storia della NBA a superare la soglia delle 70 vittorie nella regular season, imagesvincendo ben 72 partite su 82, un risultato senza precedenti. Con una line-up composta da Jordan, Ron Harper, Scottie Pippen, Dennis Rodman e Luc Longley, nonché probabilmente la miglior panchina della Lega, soprattutto grazie a Steve Kerr e Toni Kukoč, miglior sesto uomo della Lega e sempre in campo nei finali di partita, i Bulls migliorarono tantissimo rispetto alla stagione precedente, passando da un record di 47-35 a 72-10. Jordan vinse il suo ottavo titolo di marcatore e Rodman il suo quinto consecutivo da rimbalzista, mentre Kerr guidò la Lega nel tiro da tre punti. Jordan ottenne la cosiddetta Triple Crown, la prestigiosa e quasi impossibile impresa dei tre premi come MVP: infatti in questa stessa stagione Michael è MVP dell’All Star Game, MVP della stagione regolare e MVP delle finali, vinte contro i Seattle SuperSonics. Il manager Jerry Krause fu il “dirigente dell’anno”, Jackson vinse il suo primo premio come allenatore dell’anno e Kukoc fu il sesto uomo dell’anno. Sia Scottie Pippen che Michael Jordan furono parte dell’All-NBA First Team e gli stessi due insieme a Dennis Rodman fecero parte anche dell’All-Defensive First Team. La squadra trionfò contro Gary Payton, Shawn Kemp e i loro Seattle SuperSonics vincendo il quarto titolo.

Per molti critici della pallacanestro si tratta della più forte squadra nella storia NBA; nasce l’idea di un campione e di una squadra invincibili che scatena un fenomeno mediatico senza precedenti: la pressione è tale che i Bulls nelle loro trasferte devono viaggiare scortati e, nella prenotazione degli alberghi, sono costretti a riservarsi l’intero edificio per sfuggire all’assedio dei fans. L’NBA, sempre preoccupata che qualche suo membro catalizzi troppa attenzione rispetto al contesto generale, cerca rimedi e convince Magic Johnson a fare ritorno sul campo dopo quasi 4 anni dal suo ritiro dal basket avvenuto ai Giochi olimpici di Barcellona e quasi 5 da quelli dai campi NBA. Questo avverrà, ma la non completa competitività dell’ormai anziano Magic non può realizzare appieno le aspettative della dirigenza della Lega.

La stagione 1996-1997 è ancora una stagione-record: i Bulls ottengono un record di vittorie-sconfitte di 69-13. Ancora una volta, i play-off vedono i “tori” di Chicago protagonisti, e nelle finali arriva il quinto titolo dopo la vittoria in finale contro gli Utah Jazz di Karl Malone e John Stockton. In quelle finali, in gara 5, la serie 2-2, Jordan, con 39 di temperatura e dopo aver vomitato tutta la notte, realizza 38 punti con 5 assist. Pippen dirà di non aver mai visto MJ stare così male come prima di quella partita. La gara è ancora ricordata come “the flu game”!

Air guida la squadra durante la stagione 1997-1998 che, anche se non emozionante come le precedenti, è comunque abbastanza convincente. Dopo una regular season non all’altezza delle due precedenti, i Chicago Bulls ritrovano lo smalto nei play-off e raggiungono nuovamente le finali, dove incontrano gli Utah Jazz per il secondo anno consecutivo, uscenti da un’agevole finale di Conference vinta con un secco 4-0 contro i Los Angeles Lakers. Arriva così il sesto titolo per Jordan, suggellato da una palla rubata dalle mani di Karl Malone e dallo splendido tiro proprio di MJ a 6,6 secondi dalla fine della sesta gara delle finali, giocata a Salt Lake City, entrato di diritto nella storia della pallacanestro: è il secondo three-peat per Michael e i Chicago Bulls.

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È il suo saluto di congedo dalla NBA, anche se nessuno ancora lo sa. Poco tempo dopo la finale annuncia il suo secondo, e a detta di tutti definitivo, ritiro. Si dedica al suo secondo sport preferito, il golf, ed alla gestione dei Washington Wizards.

Questa è la storia di come un uomo sia riuscito ad immedesimarsi in una squadra e di come quella squadra si sia immedesimata in quell’uomo. Questa è la storia di un gruppo di uomini, di amici, che comandati da un leader assoluto, si è innalzato nell’Olimpo del basket mondiale, diventando semplicemente i più forti di tutti i tempi.

Questa è la storia di Michael Jordan e dei suoi Chicago Bulls.

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[DATA: FROM WIKIPEDIA.IT]