EARL MANIGAULT

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Guardando l’ultima Gara delle schiacciate di Houston, nella totale estasi del momento, una domanda mi è sorta spontanea: chi è l’atleta che ha saltato più in alto nella storia del basket?

Troppo facile, e precipitoso forse, rispondere Michael Jordan o lo stesso Wilkins. Qualcuno potrebbe rispondere Spud Webb, ex giocatore di Atlanta e Sacramento, 1,67, saltava 1.60 in verticale, vincitore della gara delle schiacciate dell’86.

Qualcun altro magari Nate Robinson, 1.70, gioca a Golden State, la sua elevazione supera il metro e trenta, tre volte vincitore dello Slam Dunk Contest.

In realtà per i più informati non ci sono dubbi. La risposta è la stessa che diede uno dei migliori di ogni epoca, Kareem Abdul Jabbar, alla domanda: “Quale avversario le faceva venire i brividi giù per la schiena quando scendeva in campo, qual è stato il più grande di tutti gli avversari affrontati?”

E forse Kareem quei brividi li ha sentiti di nuovo, quando in quel momento ha pronunciato il suo nome: “THE GOAT”.

Earlthegoatmanigault2Earl Manigault per l’esattezza. Fermi tutti. Per molte persone è un nome sconosciuto, e lo era anche per me fino a non molto tempo fa. Inutile cercarlo su youtube. Di suoi filmati non c’è traccia. Solo alcune fotografie. E un film che racconta la sua vita: “Rebound” del 1996, diretto da Eriq LaSalle. The Goat, letteralmente si traduce “Il Caprone”, in realtà è una sorta di acronimo, e sta per “Greatest Of All Time”, il più grande di tutti i tempi.

Questo piccolo grande personaggio tra una leggenda e l’altra, si è guadagnato l’epiteto di “RE” del basket newyorkese negli anni ’60. Si racconta che sin da piccolo Earl andasse in giro con i pesi attaccati alle caviglie per potenziare i muscoli e poter colmare il divario di altezza che lo svantaggiava nelle sfide quotidiane con gli amici sui campetti del quartiere. Molti di questi amici raccontano che THE GOAT con la palla in mano fosse capace di far cose che gli altri non riuscivano nemmeno a pensare: colpi di genio che infiammavano le platee del playground di turno, gesta che richiamavano persone da tutta N.Y.C. e che rimanevano incantate nel vedere quelle azioni spettacolari.

Tracce di Earl nella Nba non ce ne sono. Briciole al college e in high school. Non ebbe fortuna. Lui, nato a Charleston, Carolina del Sud, il 7 settembre 1944, fu abbandonato dalla sua poverissima famiglia, ultimo di nove figli. Troppi. Tra il 1944 e il 1951 il piccolo Earl non vive certo una vita felice, passando da un orfanotrofio all’altro, finchè non viene preso in adozione dalla signora Mary Manigault. Earl e sua madre Mary si trasferiscono a New York City, nel quartiere di Harlem, che già a quel tempo era rinomata per i suoi campetti da basket, oltre che, purtroppo, per la delinquenza ed il traffico di droga che ne funestavano le strade. Nonostante le pessime condizioni in cui erano costretti a vivere (casa in legno, senza acqua ed elettricità), anche perché la signora Mary non poteva permettersi molto visto che aveva trovato, e solo da poco, lavoro in una lavanderia, Earl, che tutti credevano muto a causa della suo completo distacco dal mondo circostante, scoprì il suo amore per il basket, quel gioco che più tardi lo avrebbe fatto incoronare come “RE di Harlem”! Earl imparò subito a sopravvivere nel Bronx, dove c’erano due modi per ottenere rispetto. Avere l’arma più grossa, oppure diventare il migliore dei playground.

Erano tempi duri quelli. In un’America che s’imponeva come prima potenza economica mondiale si celava, allora come oggi, un’altra realtà fatta di miseria estrema, criminalità, droga e disperazione. E’ l’America delle periferie-ghetto, dove nascere col colore della pelle scuro è già sufficiente per sentirsi addosso tutte le colpe, per essere emarginato e discriminato, è sufficiente per condannarti ad una vita misera.. Ed ecco che il basket può diventere l’occasione giusta, l’occasione per il riscatto sociale, per dimostrare che almeno in quel campetto, almeno in quel quartiere IO sono il migliore di tutti! Non è solo sport. E’ lo sport che si mischia alla realtà diventando pura e semplice ragione di vita..

Di Manigault come ho detto non ci sono filmati. Ci sono solo le testimonianze. E quella di Kareem Abdul Jabbar è solo una delle tante. D’altronde, in quella New York si viaggiava sulla base della reputazione tramandata da azioni cui avessero assistito testimoni attendibili.

Forse è anche per questo che andava a recuperare con un semplice salto i biglietti da 20 dollari che gli mettevano sopra, SOPRA il tabellone, per poi spenderli nel peggior vino acquistabile in commercio.

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Nonostante, a 13 anni, fosse alto soltanto 165 cm, Earl riusciva già a strabiliare tutti andando a schiacciare a canestro con due palloni da volley contemporaneamente. Il 4 luglio del ’66 in località Riis Beach al Queens, andò a schiacciare saltando letteralmente SOPRA due avversari, guadagnando così ulteriori trenta centimetri con un colpo di reni mentre era in fase ascensionale….quei due avversari si chiamavano Connie Hawkins e Lew Alcindor, alias un giovane Kareem Abdul Jabbar; in una partita del campionato scolastico schiaccia salendo abbondantemente sopra i 4 metri; brevetta la doppia schiacciata “DOUBLE DUNK”, schiacciando prima con una mano e poi riprendendo il pallone con l’altra mano e schiacciando una seconda volta mentre era in aria; celebre la sua famosa dunk 720° con la quale girava due volte su se stesso in aria prima di schiacciare!!!

In questi anni Earl cresce fino ad oltre 180 cm, si esibisce sia con la squadra della scuola, la Franklin High School, che sui playground newyorkesi diventando il più grande di tutti quanti. Proprio su quei campetti entra in contatto con un personaggio molto influente nel mondo del basket del tempo, Holcombe Rucker, un talent-scout per il basket professionistico americano. Quest’ultimo, dopo essersi reso conto delle immense potenzialità di Earl,  decise di mandarlo via da quel posto pieno di cattive tentazioni e di farlo iscrivere in una scuola privata, dove il ragazzo potesse essere seguito più attentamente. Earl così si dedica agli studi senza tralasciare l’amore per la pallacanestro: nei suoi giorni di vacanza dallo studio infatti appena può torna ad Harlem e dimostra di essere ancora il più grande. Molte Università in quel periodo lo corteggiano per averlo nella propria squadra di basket una volta terminata la high school. A spuntarla è la Johnson C.Smith University, decisione che Earl prende di comune accordo col Preside della scuola e con il suo futuro allenatore che lo aveva favorevolmente impressionato durante il colloquio di presentazione. Purtroppo però quando Earl si presenta alla Johnson University il coach non è più lo stesso, e il nuovo allenatore risponde al nome di Bill McCollough, amante di schemi, disciplina e gioco di squadra, caratteristiche che non si addicono certo a Manigault. Infatti la vita di è Earl prima illuminata dalla nascita del suo primo figlio Darrin, poi tristemente rabbuiata dalla scomparsa del suo amico-padre Holcombe Rucker, perdita che Earl soffre particolarmente, entrando in uno dei periodi più bui e critici della propria vita.

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Nel Natale del ’66 Earl torna ad Harlem per un break festivo e dopo una partita al Rucker Park, il più famoso di New York City, inizia la sua autodistruzione avvicinandosi per la prima volta alla polvere bianca, “the great white lady” nello slang del periodo, l’eroina! Da quel momento THE GOAT non sarà più quello che tutti vedevano volare sui playgrounds, il Re di Harlem, ma diverrà agli occhi della gente soltanto un povero tossicomane come tanti. La dipendenza dalla droga e la conseguente depressione gli fanno perdere il contatto con la realtà circostante. Earl lascia la moglie con il piccolo figlio da crescere e compie atti criminosi per i quali diventa un frequentatore abituale delle prigioni newyorkesi. La sua tossico-dipendenza e le sue cattive amicizie lo stavano distruggendo, il Re di Harlem era adesso solo un bel ricordo nella mente di chi aveva avuto la fortuna di vederlo in azione. Tra questi sicuramente doveva esserci lo scrittore Pete Axthelm, autore di “The City Game” che in molti considerano la vera bibbia del basket e che al proprio interno contiene un capitolo tutto dedicato alla vita del nostro Earl Manigault. Nel ’71 Earl viene chiamato per un try-out dagli Utah Stars dell’ABA, ma, ormai bruciato dalla droga, non riusciva più a volare come un tempo e non era più in grado di giocare ad alti livelli. Forse smosso da questi inaspettati e positivi avvenimenti Earl, in uno dei pochi barlumi di lucidità, capisce che quella non era la vita che voleva vivere. Decide quindi di disintossicarsi e di aiutare i giovani di Harlem a non rovinarsi con le proprie mani come era capitato a lui stesso. Riesce dapprima ad avere in custodia un campetto, si dice perchè un boss della droga, che da giovane era un suo fan, aveva dettato una regola, “nessuno tocca the goat e il suo campo da basket”, quel campetto prenderà il suo nome (The Goat Court).

In seguito, aiutato anche da associazioni locali, Earl dà vita al famoso “THE GOAT TOURNAMENT WALK AWAY FROM DRUGS”, torneo cestistico dal nome eloquente. Viene ingaggiato anche come allenatore di una squadra giovanile che porta, nell’anno della sua gestione, al titolo per la prima volta nella sua storia. Moltissimi giornalisti e cronisti in quegli anni si spingevano a Manhattan, all’incrocio tra la Amsterdam Av. e la Novantanovesima Strada per farsi raccontare la sua vita e magari riuscire a pubblicare qualche aneddoto inedito. Earl era riuscito a raddrizzarsi, era riuscito a lasciarsi alle spalle i momenti bui e a ritrovare la gioia di vivere che voleva trasmettere ai giovani newyorkesi.

E’ il 15 maggio 1998, lo stesso giorno in cui è morto Frank Sinatra, che si spegne anche lui, il “RE BUONO”, “L’UNICO UOMO CHE POTEVA ANDARE IN GIRO PER HARLEM SENZA UN PENNY IN TASCA ED AVERE CIO’ CHE VOLEVA”, il “RE DI HARLEM”, “LA CAPRA”, “THE GOAT”, per colpa di un arresto cardiaco causato da quell’aorta tumefatta dai troppi stravizi degli anni passati. I conoscenti e gli amici più stretti amano ricordare Earl durante le partite al Rucker Park, quando volava a canestro ridicolizzando l’avversario di turno, e raccontano che Earl aveva avuto un solo grande rammarico durante la sua vita da cestista: voleva sedersi sul ferro del canestro durante una partita..non ce la fece soltanto per pochi centimetri.

Il suo spirito regna ancora su tutta Harlem. Jordan? Johnson? Chamberlain? Jabbar? Nossignori. Se chiedete a New York: “Chi è stato il migliore di tutti?” vi risponderanno con un altro nome. L’unico possibile. the Goat.